"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




giovedì 28 gennaio 2010

Recensione di Pietro Greco su l'Unità


Sull'Unità online Pietro Greco ha scritto una recensione al libro

I ricercatori non crescono sugli alberi. E, in ogni caso, in Italia il terreno dove nascono gli alberi della ricerca è sempre più arido. Qualcuno sta drenando via l’acqua residua, in un ambiente che non è mai stato particolarmente umido.

Il messaggio che Francesco Sylos Labini, fisico in forze all’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR, e Stefano Zapperi, fisico e ricercatore presso il CNR di Modena, hanno affidato a un libro denso di numeri e di idee appena uscito con l’editore Laterza (I ricercatori non crescono sugli alberi; Laterza; pp. 118; euro 12,00) non è certo nuovo. Molti (anche se non moltissimi) hanno descritto in tempi recenti la condizione di estrema difficoltà che caratterizza la ricerca scientifica e l’educazione terziaria in Italia. Eppure questo libro spicca sugli altri e merita di essere letto tutto d’un fiato – e poi a lungo meditato – per due motivi.
Primo: la descrizione dell’Italia della ricerca e dell’alta educazione è documentata ed equilibrata come poche. Ricca di numeri, appunto. Ma soprattutto di chiavi interpretative. Che ci restituisce tutta la complessità di un settore che, nel suo declino, segna il declino del paese.
I mali strutturali della ricerca e dell’università emergono in maniera chiara: mancanza di risorse economiche e progressivo invecchiamento delle risorse umane. C’era da aspettarselo, d’altronde. Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi hanno descritto prima e meglio di altri l’anomalo aumento dell’età media dei nostri ricercatori. Per intenderci: in Italia solo il 2% dei docenti universitari ha meno di 30 anni, contro il 15% della Germania o il 13% della Gran Bretagna. Al contrario, i docenti con oltre 50 anni in Italia sono il 56% del totale, contro il 31% della Germania o il 16% della Gran Bretagna. A questi mali strutturali occorre aggiungere quelli culturali: da un lato, le baronie e il nepotismo; dall’altro, l’assoluta incapacità di attrarre ricercatori e docenti stranieri.
Secondo: dopo l’attenta diagnosi il libro prende una posizione netta e precisa sulla terapia. È possibile ed è necessaria una riforma organica del sistema di ricerca e dell’alta educazione nel nostro paese. Che si ponga sia il problema di una maggiore quantità di risorse (finanziarie e umane) sia il problema di una loro più razionale e giusta distribuzione. Ma sia il sistema di ricerca sia il sistema di alta formazione devono restare pubblici. Non vanno ascoltate le sirene neoliberiste che vorrebbero privatizzare l’università e subordinare alle (presunte) necessità delle imprese il sistema di ricerca.
L’opzione pubblica è l’unica in campo. Non per motivi ideologici. Ma per motivi di fatto. In nessun paese, mai le imprese private seguendo le regole del mercato hanno creato un sistema di ricerca solido e una sistema di alta formazione valido. E il motivo è molto semplice: perché si tratta di investimenti di lungo termine con effetti imprevedibili. In tutti i paesi avanzati – compresi gli Stati Uniti – è lo stato che crea e finanzia la ricerca scientifica e la gran parte dell’alta formazione. Perché è l’unico che ha le risorse ed è l’unico che ha la pazienza.
Ecco, dunque, la ricetta. Tapparsi l orecchie e lasciare cantare a vuoto le sirene neoliberiste. Lavorare perché anche lo stato italiano faccia come la gran parte degli stati europei, del Nord America e dei paesi emergenti: inizi a considerare la spesa in ricerca e sviluppo e nell’alta educazione non come una spesa, ma come un investimento strategico.
Ciò è tanto più vero, aggiungiamo noi, in un paese in cui il sistema produttivo – unico in tutto il mondo cosiddetto avanzato – non solo ha scelto un «modello di sviluppo senza ricerca e senza alta formazione», ma non ha neppure piena cognizione che è a causa di questa scelta che oggi ha difficoltà a reggere il passo degli altri.

27 gennaio 2010

mercoledì 27 gennaio 2010

Intervista a Radiopopolare Roma


Mercoledi' 27 gennaio alle ore 12.40 Roberta Carlini intervista Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi su radiopopolare Roma nell'ambito del programma sbilanciamoci.info. La trasmissione puo' essere seguita in Streaming. Il podcast e' qui'

martedì 26 gennaio 2010

Alla ricerca della ricerca perduta. Un libro e un blog


Recensione (e commenti) di Roberta Carlini dal sito Sbilanciamoci.info
Vedi anche articolo su Il Manifesto (e commenti)

24/01/2010

"I ricercatori non crescono sugli alberi": un saggio di Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sui mali dell'università. E sulle ricette per venirne fuori, collettivamente

Nel palazzone del Cnr, in piazzale Aldo Moro a Roma, c’è una grande biblioteca nella quale sono consultabili le riviste scientifiche di tutto il mondo. Peccato che non ci siano i ricercatori, gradualmente decentrati per far posto al corpaccione amministrativo (oltre 2mila persone, due amministrativi o tecnici ogni 3 ricercatori). Poco male, si dirà, tanto c’è l’abbonamento internet. Peccato però che anche in rete le riviste siano accessibili solo dalla sede centrale, salvo pagarsele.
Il caso della biblioteca del Cnr è solo un piccolo esempio di vita vissuta all’interno di un quadro generale dei mali (e del bene) della ricerca e dell’università in Italia, fatto da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi in un libro appena uscito, “I ricercatori non crescono sugli alberi” (Laterza, 2009, 12 euro). Libro scritto dai due autori “per fatto personale”: sono entrambi ricercatori di fisica, entrambi rientrati in Italia dopo un periodo all’estero, scontenti, anzi indignati, del sistema italiano, ma determinati a scongiurare un rischio: diventare degli ex-giovani brontoloni, “continuare a lamentarci del sistema diventandone piano piano parte integrante, adeguandoci infine ai suoi meccanismi”. Qualche tempo fa hanno pubblicato un articolo sull’invecchiamento del corpo docente ("lo tsunami dell'università italiana") che ha avuto molta risonanza e anche qualche effetto politico, adesso pubblicano questo libro e lo mettono in discussione aperta in un blog: http://ricercatorialberi.blogspot.com/.
Punto di partenza - e di arrivo - del saggio è il sistema pubblico dell’università e della ricerca. Il sistema dei baroni che si tengono stretti gli allievi, degli allievi che non devono superare il maestro, dei ricercatori che quando entrano in ruolo hanno già i capelli bianchi, degli ultrasettantenni che non vogliono lasciare la cattedra (il che sarebbe anche bello) e soprattutto non mollano il potere (il che è meno bello), dei tagli del governo che stanno portando gran parte degli atenei sull’orlo del fallimento. Al contrario di quanto succede nella gran parte della pamplhettistica sull’università italiana, qui l’elenco delle malefatte non è connesso a una ricetta privatizzatrice. Si contestano dunque alcuni luoghi comuni, con dati e analisi - spesso assai tecniche, ma il cui esito è comprensibile ai non addetti ai lavori. E si evita di alimentare ancora l’aneddotica sul malcostume accademico, concentrandosi su alcuni nodi che possono spiegare come un sistema così si sia potuto formare e abbia potuto crescere. E tra i tanti punti analizzati, quello cruciale, che a catena produce altri problemi, è l’assenza della valutazione indipendente, dei ricercatori e dei loro risultati.
Gli autori non si nascondono e non ci nascondono i problemi che ci sono nei meccanismi della valutazione “tra pari” (peer review), il gran dibattito che c’è sugli indici legati alle pubblicazioni e alle citazioni, la necessità di essere sempre vigili contro qualsiasi illusione di una valutazione “automatica”: pure, dicono, c’è la possibilità di valutare la qualità della ricerca che si fa, e distribuire poi i soldi in base a questa valutazione; e sarebbe bene stare ai fatti, a quel che esce dalle nostre università e dai nostri enti di ricerca, invece di impastoiarsi nelle regole sulla selezione all’ingresso, inventarsi improbabili sorteggi o affidarsi alle virtù salvifiche di un sistema privato che, in crisi adesso anche negli Usa, in Italia non ha mai scucito un euro per la ricerca.
La scelta di fare delle proposte, e dunque esporsi anche a un dibattito su queste, fa uscire il lavoro di Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi dall’elenco dei libri-lamentela. Ciò non vuol dire che non ci sia da fare denunce, e tante. In particolare, l’analisi del ciclone Tremonti-Gelmini che con i tagli decisi nel decreto d’esordio del governo nel 2008 ha condannato a morte sicura parecchie università; e tale destino, nonostante tutto il gran parlare di merito e valutazione, è legato a dinamiche di spesa, come quella per le retribuzioni, su cui poco possono incidere. Il tutto in un contesto nel quale la spesa pubblica per l’istruzione terziaria è già a livelli minimi nei confronti internazionali - ove questi siano fatti con criteri omogenei (qui gli autori contestano l’operazione compiuta dall’economista Roberto Perotti che, volendo svelare i conti dell“università truccata”, ha corretto la spesa pubblica per studente escludendo dal computo i fuori-corso).
Ma non è solo questione di soldi, ripetono gli autori del libro. Un esempio: ci sono stati pochi soldi per assumere i nuovi ricercatori, è vero. Però è anche vero che i pochi soldi che c’erano sono stati in gran parte spesi per promuovere gli associati a ordinari e (di meno) i ricercatori ad associati. Scelte legittime, nell’autonomia delle singole università: ma anche sospette, dato che è evidente che i futuri ricercatori non votano per gli organi accademici, chi è dentro sì. E nell’insieme la scelta di promuovere gli interni invece di assumere gli esterni ha fatto diventare molto piccola la base dell’università (i ricercatori), più pesante il vertice (gli ordinari), e allargato moltissimo l’esercito degli esterni, i precari, che secondo il governo non sono più del 5% e che invece tutte le indagini qua e là fatte stimano tra il 30 e il 40% del corpo docente. Adesso gran parte del lavoro nelle università si basa su questa enorme massa che formalmente è ancora fuori dalle porte degli atenei, e che entra con il contagocce ove pensionamenti, alchimie concorsuali e tetti lo consentono. O va a cercare alberi stranieri a cui appendere il suo futuro - sperando magari di rientrare in quota “cervelli”, per i quali è stato approntato dal sistema pubblico dell’università un apposito sito, detto http://cervelli.cineca.it.

Tra la corrente di pensiero dominante e governante, che considera il sistema pubblico dell'università e della ricerca più o meno come i reaganiani consideravano lo Stato (una brutta bestia da affamare, per lasciare campo libero a meravigliose sorti mercantili), e una linea di difesa prevalente che si arrocca nella difesa dell'esistente, il libro di Sylos Labini e Zapperi fornisce una terza via realistica e radicale: la bestiaccia universitaria si può guarire senza ammazzarla. Troppo ottimisti? Il dibattito prosegue sul blog.

lunedì 25 gennaio 2010

Recensione su greenreport.it


Il sito greenreport.it ha pubblicato una recensione al libro.
"Greenreport
ha evidenziato più volte come il mondo della ricerca abbia difficoltà a comunicare se stesso, a uscire dalle riviste scientifiche e presentarsi al mondo reale. Francesco Sylos Labini (Istituto dei sistemi complessi del Cnr, presso il centro Enrico Fermi di Roma), e Stefano Zapperi (fisico ricercatore al Cnr di Modena), hanno appena pubblicato per Laterza un saggio che analizza lo stato di salute della ricerca italiana, propone soluzioni e non nasconde i suoi obiettivi, tra cui quello «della qualità dell'informazione scientifica sui media, perché solo un'informazione corretta può dare una rappresentazione del problema che non sia distorta o artificialmente semplificata».

Forse proprio in questa frase è nascosto l'errore: sempre nell'introduzione ma poche righe sotto, Sylos Labini e Zapperi scrivono che «un'opinione pubblica matura e informata deve saper apprezzare e capire l'importanza strategica della ricerca, il suo ruolo nel progresso tecnico e scientifico della società, e anche la sua rilevanza per gli sviluppi applicativi e le ricadute economiche».

Semplicemente, se - e questo è giustissimo - bisognerebbe attendersi una risposta dall'opinione pubblica, allora anche la scienza dovrebbe non tanto informare, quanto comunicare sé stessa: il linguaggio e l'esclusività delle pubblicazioni scientifiche infatti, mal si adattano a un'opinione pubblica educata e cresciuta a base di ben altri messaggi... soprattutto in prima serata...

Quello della comunicazione scientifica è quindi un vulnus che i due ricercatori mettono a nudo nel loro libro anche successivamente, quando confrontano il rapporto che contiene le relazioni di tutti i dipartimenti del Cnr ("256 pagine fitte di testo, [...] un tomo purtroppo illeggibile: vi è una lista infinita e incoerente di risultati, collaborazioni, finanziamenti. Non si capisce quali siano i risultati veramente importanti che il Cnr potrebbe e dovrebbe realizzare [...] sembra insomma che questo documento non sia stato scritto perché qualcuno lo potesse leggere, ma perché qualche regolamento ne prevedeva la stesura") con il rapporto del Cnrs francese ("veste grafica accattivante in cui vengono elencati i principali risultati scientifici divisi per campi disciplinari [...] l'impressione è quella di una rapporto rivolto al lettore [...] al quale se ne affiancano altri per il grande pubblico che mostrano quello che fa per il Cnrs per la società e il suo impatto economico").

Il tema del difficilissimo rapporto tra la scienza e la comunicazione, tra gli scienziati e i media e poi l'opinione pubblica, è ripreso più volte nel corso del libro dai due studiosi che non a caso citano "lo spazio sproporzionato (concesso dai media, ndr) «a casi di pseudo-scienziati che propongo idee che non sono neanche discusse dalla comunità scientifica». E qui ritorniamo a un altro vecchio punto fermo delle riflessioni su greenreport: la mancanza in Italia di giornalisti specializzati (diciamo preparati) sui temi scientifici ( e ambientali) che ha come risultato, quando va bene, il dispensamento equo di spazio a voci contrastanti, anche se spesso una voce è quella più o meno riconosciuta dalla comunità scientifica mondiale e l'altra è la voce del santone di turno che spacciandosi per scienziato ottiene lo stesso spazio presentando un'idea che il sistema (perfettibile ma sufficientemente affidabile) del peer review ha già confutato.

Sarebbe riduttivo limitare al solo aspetto comunicazionale la recensione di questo libro che in modo propositivo fotografa vizi (tanti) e virtù (poche, "e non grazie, ma nonostante il sistema") della ricerca e dell'istruzione terziaria, «settori strategici nei quali l'investimento dovrebbe essere considerato indispensabile al progresso economico e culturale del paese, soprattutto nei momenti di crisi».

Tralasciando altre questioni fondamentali ma piuttosto "tecniche" relative a pensionamenti, scatti di anzianità, turnover, ingressi a ruolo, baronati, Sylos Labini e Zapperi affrontano con un interessantissimo punto di vista interno altre questioni centrali per lo sviluppo e per il futuro di un Paese, come la valutazione del merito, totalmente ignorato in Italia fino al gennaio del 2009, quando alcune modifiche al decreto Gelmini puntavano «a ridurre gli sprechi nelle università» prometteva «concorsi più trasparenti» annunciava la valorizzazione degli studenti meritevoli.

In realtà, spiegano gli autori del libro, gli «atenei virtuosi» sono quelli «con i conti a posto e non con alti standard formativi o promotori di ricerca di qualità. Di nuovo la valutazione della qualità non viene considerata nella distribuzione delle risorse e si guarda solo all'aspetto finanziario».

Quindi non solo pochi soldi alla ricerca (le cifre sono snocciolate nel capitolo "la solita litania" e presentano l'ormai famigerata 1,6%, percentuale che va alla spesa pubblica per l'istruzione universitaria calcolata in rapporto alla spesa pubblica totale, e che secondo i parametri della Strategia di Lisbona dovrebbe essere del 3%), ma anche distribuiti male, senza criteri di valutazione del merito e senza soprattutto, aggiungiamo noi, un indirizzo dato a che tipo di ricerca si ritiene sia più utile per il futuro del Paese.

Qui entra in ballo l'ipotesi ampiamente pubblicizzata di questi tempi di una riforma che privatizzi l'università italiana e quindi anche la ricerca, sulla quale i due ricercatori hanno idee molto chiare, ma che possono essere riassunte con la citazione di un esempio: «Quando Einstein formulò nel 1915 la teoria della relatività generale non si sognava certo di contribuire, a distanza di cento anni, allo sviluppo di importanti applicazioni pratiche. Questo è proprio quello che è avvenuto negli anni Novanta con la tecnologia Gps (Global positioning system) che permette tramite una rete satellitare, di calcolare la posizione di un ricevitore con un'approssimazione di un metro, tenendo conto proprio delle correzioni relativistiche. Questo semplice esempio mostra come uno dei motivi principali per cui la ricerca di base debba essere finanziata con fondi pubblici risieda proprio nella scala di tempo necessaria alla ricaduta dell'investimento. Nessun privato può permettersi di fare un investimento che da una parte è inevitabilmente ad alto rischio e dall'altra richiede generalmente una scala di tempo molto più lunga di qualsiasi intervallo temporale accettabile da un singolo individuo» (e da qualsiasi azienda privata).

Per arrivare alle considerazioni finali da parte dei due ricercatori: «solo un'inversione di rotta nella politica della pianificazione, del finanziamento e della gestione del sistema università-ricerca potrebbe rendere l'università italiana competitiva e attraente per un ricercatore straniero. Appare evidente che al competitività del nostro Paese deve basarsi sull'innovazione tecnologica [...] perché i Paesi che non sapranno mantenere una ricerca di qualità non potranno stare al passo dei sempre più rapidi cambiamenti economici dovuti allo sviluppo della conoscenza [...] la questione della crisi energetica e della crisi ambientale, ad esempio, può essere affrontata solo in un quadro in cui l'innovazione giochi un ruolo chiave».

Fonte originale

giovedì 21 gennaio 2010

Saving Italian Science


(Questo brano, tratto dal libro "I ricercatori non crescono sugli alberi" che sara' in libreria da venerdi' 22 gennaio 2010, e' stato pubblicato da Il Fatto Quotidiano il 21 gennaio 2010) .

Saving Italian science. Questo è il titolo di un articolo apparso alcuni anni fa su una delle più prestigiose riviste scientifiche internazionali1. Non è che uno dei tanti articoli che sempre più spesso vengono pubblicati sulle principali riviste scientifiche del mondo per denunciare lo stato sempre più critico della ricerca in Italia, la sua gestione senza prospettiva, la cronica mancanza di finanziamenti, e la loro immancabile riduzione da parte del governo di turno. La preoccupazione percepita internazionalmente è anche dovuta al fatto che il contributo italiano è ancora visibile in alcuni campi della ricerca. Gli scienziati italiani di prestigio e i giovani ricercatori appena emigrati verso le più accoglienti università europee o americane guardano afflitti alla decadenza del sistema nel loro paese d’origine. Sui mezzi di comunicazione italiani si torna a discutere ciclicamente dei problemi dell’università e della ricerca, puntando però l’attenzione soprattutto sui casi di «mala università». La situazione diventa sempre più disperata, e forse la cosa più allarmante è che nell’opinione pubblica e in chi dirige il sistema università-ricerca non si vede alcuna reale preoccupazione per la perdita di competitività del sistema. Sembrano mancare una visione realistica dello stato delle cose ed una prospettiva di riforma lungimirante. I tagli ricorrenti ai finanziamenti per la ricerca immancabilmente scatenano polemiche, spesso inefficaci. Saltuariamente si legge di uno dei problemi più scottanti generati dalla deriva del sistema universitario: la grande quantità di giovani che non riescono ad entrare nel sistema e che sono quindi forzati ad emigrare o a rimanere in Italia in condizioni disastrate. A volte quando discutiamo del problema della ricerca in Italia con un collega straniero, sia esso francese o spagnolo, inglese o americano, ci rendiamo conto che la prima difficoltà sta proprio nel descrivere come funziona il sistema italiano, con i suoi oscuri meccanismi di finanziamento e le incomprensibili regole che ne governano la dinamica.

(...)

Quando si parla di finanziamenti alla ricerca, il mondo politico in genere fa molte promesse, spesso però contraddette dai fatti. Le promesse sono state particolarmente generose da parte del governo Prodi, che aveva collocato la ricerca scientifica e l’istruzione universitaria tra i punti cardine del programma. Ma vediamo, al di là dei proclami, cosa è veramente successo nell’ultimo decennio con il finanziamento alla ricerca di base. Il Ministero ogni anno co-finanzia programmi di ricerca di rilevante interesse nazionale (PRIN) proposti dalle università e dagli osservatori astronomici, astrofisici e vulcanologici. L’attuazione dei programmi ha durata biennale e comprende gran parte dello scibile umano. Il finanziamento PRIN, comunque non arriva all’1% del totale del finanziamento all’università. Si può notare come nel 2006 (governo Prodi) vi sia stato un calo del 30% circa dei finanziamenti, cosicché il già non generoso sostegno alla ricerca di base è diminuito, da circa 130 a poco più di 80 milioni di euro, proprio nel periodo in cui al governo si è insediato lo schieramento politico che, almeno a parole, ha sempre manifestato un grande interesse per la ricerca. Il governo successivo ha agito comunque in piena continuità con il precedente, con i già menzionati tagli targati Tremonti-Gelmini. La ricerca in Italia è dunque trattata come una sorta di bene di lusso cui si può rinunciare quando i soldi scarseggiano. Ricordiamo, ad esempio, i 30 milioni di euro concessi nel 2007 dal governo Prodi agli autotrasportatori, sottratti direttamente dai fondi per la ricerca. In sostanza, il modo con cui negli ultimi anni è stato affrontato il problema della ricerca si basa su soluzioni inadeguate ed estemporanee, come gli osservatori più attenti hanno notato e i diretti interessati hanno sperimentato sulla propria pelle. Senza entrare nei dettagli, ricordiamo che il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha promesso nel suo programma elettorale di raddoppiare gli investimenti federali nella ricerca di base in dieci anni, concentrando l’attenzione su scienze della vita, fisica, matematica e ingegneria; aumentare le borse di studio per giovani ricercatori; stimolare la ricerca sulle cellule staminali anche embrionali, eliminando il divieto sul finanziamento federale che George W. Bush aveva approvato nel 2001; utilizzare per la ricerca scientifica gli embrioni soprannumerari, senza crearne appositamente di nuovi. Lo aveva promesso e ha cominciato a farlo già nei primi mesi di governo.

venerdì 15 gennaio 2010

Valutazione, Impact Factor e Gaussiane




Il problema di come valutare un articolo scientifico e' complesso e richiede un'analisi approfondita. Nel nostro libro ne diamo una introduzione. Qui ci soffermiamo su una particolare maniera di quantificare l'impatto (e quindi la qualita') di un articolo scientifico, l'impact factor (IF). L’ IF di una rivista è ottenuto contando le citazioni ottenute in un anno dagli articoli pubblicati nei due anni precedenti. Il problema e' se l'IF sia una misura significativa o meno dell'impatto di un singolo articolo pubblicato su quella rivista. Vi e' a questo proposito una ampia bibliografia (vedi ad esempio qui) che sconsigliano l'uso dell'impact factor in sede di valutazione. Avrebbe un senso affermare che l'IF di una rivista rifletta l'IF di ogni articolo pubblicato su quella rivista, se la distribuzione delle citazioni fosse molto stretta intorno ad un valore medio (ad esempio una Gaussiana) questo significherebbe che il valore medio e' rappresentativo per ogni articolo. Tuttavia non e' questo il caso. La distribuzione e' molto larga. Questo significa che valori molto lontani dal valore medio sono sufficientemente probabili.

Nelle figure (in scala lineare e logaritmica) sono riportate (asse x) il numero citazioni c ed in asse y il numero di articoli P(c) con c citazioni per gli articoli pubblicati sulla rivista di fisica Physical Review Letters negli anni 1982-2006, 1982 e 2000 (cortesia di Claudio Castellano --- ci sono vari studi pubblicati su questo argomento come ad esempio questo. ). La linea verticale indica il numero di citazioni medie per gli anni 1982-2006. La caratteristica significativa e' che le distribuzioni delle citazioni hanno la stessa forma nei differenti casi. Si vede infatti che la maggior parte degli articoli ha ottenuto poche citazioni ma vi e' un numero considerevole di articoli con tante citazioni (>200) . Studi di questo tipo portano alla conclusione che data la grande dispersione dei valori, l'IF per classificare un singolo articolo non ha senso. Valutando una pubblicazione in base all’IF si potrebbe giungere al risultato paradossale di considerare più meritevole un articolo mai citato e pubblicato sulla rivista A, di un articolo citato da centinaia di persone e pubblicato sulla rivista B solo perché l’IF della rivista A è più alto di B. Bisogna senz'altro valutare la ricerca e usare anche parametri quantitativi, ma bisogna farlo in maniera sensata.

martedì 12 gennaio 2010

La copertina








Link alla scheda Laterza






venerdì 8 gennaio 2010

Correlazioni in libertà II

Vorrei provare a chiarire alcuni punti riguardo al post precedente, cercando allo stesso tempo di rispondere alle critiche. Il punto centrale riguarda l'uso del formalismo matematico e dei metodi quantitativi che si fa nelle scienze sociali e nell'economia. Si tratta di metodi caratteristici delle scienze "dure" come la fisica ma vengono usati sempre di più in tutti i campi del sapere. Non è detto che questo sia di per sé sbagliato, ma bisogna sempre tenere presente cosa si sta misurando, come lo si sta misurando e se le ipotesi da cui parte l'analisi siano fondate o meno. Spesso vediamo misurare alcune quantità o definire alcuni indicatori per poi trarre conclusioni sommarie che trascendono ciò che la misura realmente rappresenta. Un esempio classico è quello del quoziente intellettivo (QI). Il QI rappresenta la capacità che ha una persona ad un dato istante di tempo nel rispondere ad una serie di domande di un certo tipo. Quello che invece ci viene spesso raccontato è che il QI misura l'intelligenza innata di una persona e che questa quantità sarebbe addirittura ereditaria. Gli studiosi del QI fanno uso di metodi statistici e matematici sofisticati, quali l'analisi fattoriale, il p-value, il g-factor, matrici di cross-correlazionie e chi più ne ha più ne metta. Tutta questa matematica offusca una cosa evidente e cioé che l'intelligenza non è misurabile semplicemente su di una scala lineare come se fosse la circonferenza cranica, come discusso in dettaglio da S. J. Gould in un bellissimo libro (Intelligenza e pregiudizio).

Una misura quantitativa o una sofisticata analisi matematica sembra però rendere una tesi molto più forte e convincente, grazie all'idea che la scienza sia in un certo senso obbiettiva. Ad esempio, se misuro la resistenza meccanica dell'acciaio e mostro che aggiungendo una certa percentuale di carbonio il materiale diventa più resistente posso dire ad una industria metallurgica che in questo modo i suoi componenti saranno migliori (nel senso della resistenza). Abbiamo una misura di due quantità fisiche ben definite (resistenza meccanica, di trazione ad esempio) e percentuale di carbonio e una curva che lega una caratteristica all'altra (vedi grafico). Certo, se la curva di resistenza fosse simile al grafico riportato nel post precedente dubito che la nostra industria metallurgica utilizzerebbe il carbonio nella sua lega. Ma questo è solo un aspetto della questione, il punto è che ciò che viene misurato in quel grafico è molto lontano dalla nostra misura meccanica. Le ascisse riportano un indice, frutto di un'analisi fattoriale su vari indicatori di "autonomia", scelti arbitrariamente dagli autori e combinati poi linearmente. Questo almeno quello che io ho potuto capire dall'articolo in questione. In ogni modo si tratta di una misura perlomeno indiretta. Sulle ordinate invece troviamo l'inverso del punteggio di Shanghai, anche questa una misura indiretta della performance dell'università che riassume una serie di punteggi, normalizzandoli e combinandoli linearmente in maniera arbitraria. Adesso X e Y, di per sé quantità arbitrarie che riassumono in un unico indice tante qualità diverse, ognuna misurata in maniera arbitraria, vengono poste in un grafico per mostrarne la correlazione. Quello che io vedo è una nuvola di punti che riempiono il piano. Ma decidiamo di non fidarci dagli occhi (la correlazione c'è ma non si vede!) e facciamo un fit, possiamo estrarre una relazione lineare da cui concludiamo: se diamo maggiore autonomia l'università sarà migliore! Come dire: aumentiamo il contenuto di carbonio e la resistenza aumenterà! I messaggi sembrano simili: si tratta di conclusioni frutto di un'analisi sofisticata matematicamente, difficile da comprendere per il profano, ma oggettiva e scientifica. In realtà in un caso abbiamo la misura di quantità fisiche ben definite, mentre nell'altro caso ci viene detto che si stanno misurando "qualità dell'università" e "autonomia", ma in realtà si sta misurando altro: cosa esattamente non è neanche chiaro, ma di certo qualcosa di molto complicato e arbitrario, quindi facile da manipolare.

Detto questo, non vogliamo dare l'impressione di fisici arroganti disgustati di fronte al lavoro degli economisti, ma non vogliamo neanche essere presi in giro. Se ci si viene proposto un modello di università ideale quale frutto di un'analisi scientifica rigorosa, vogliamo vedere le carte, e quanto visto non ci convince affatto.