"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




mercoledì 23 febbraio 2011

Le scope della ricerca


Guido Possa (Milano, 15 gennaio 1937) è un politico italiano. Laureato in ingegneria meccanica nucleare presso il Politecnico di Milano, amico fraterno di Silvio Berlusconi, assieme al quale vendeva a domicilio scope elettriche…”. Inizia così la voce su Wikipedia dedicata all’onorevole Possa, ora presidente della Commissione Cultura del Senato, che l’altro giorno alla trasmissione Tutta la città ne parla” su Radio3, ci spiegava il concetto che il suo amico Silvio B. ci aveva già illustrato con queste semplici parole: perché dovremmo pagare uno scienziato quando facciamo le migliori scarpe del mondo? Nelle parole di Possa: “Vi è in atto un processo di contenimento dello spesa pubblica in tutti i paesi del mondo dunque è necessario tagliare… Bisogna concepire la ricerca come un formidabile processo internazionale in cui il nostro apporto è di qualche percento… Noi siamo un paese che ha limiti e bisogna prendere atto di questi limiti. Non possiamo assolutamente più pensare di essere un paese di serie A in tanti settori perché le ricerche sono condotte con mezzi che non possiamo permetterci.”

Possa ha il grande merito di essere finalmente chiaro, al di là delle chiacchiere del Ministro Gelmini, dei suoi acuti consiglieri e delle allodole che ci cascano, su quale sia l’idea che ha il governo sul ruolo dell’Italia nella ricerca, sulla meritocrazia e sull’eccellenza: l’Italia deve rinunciare a fare ricerca. Proprio un’ottima idea, che, infatti, questo governo ha perseguito con certosina pazienza e con una determinazione pari solo all’inesauribile ideazione di leggi ad personam: la riforma Gelmini è per il momento l’unica riforma promulgata da questo governo, e speriamo con il favore del vento del Nord Africa, anche l’ultima.

La maniera migliore di inquadrare il problema è quella storica. Giuseppe Saragat negli anni ’60 aveva espresso lo stesso concetto, come illustrato dall’interessante libro di Lucio Russo ed Emanuela Santoni “Ingegni minuti”, in una polemica con Felice Ippolito, che all’epoca aveva un ruolo centrale nel piano di costruzioni delle centrali nucleari, campo in cui l’Italia era all’avanguardia. Tra l’altro Saragat scrisse “Perché non aspettare che questa competitività sia realizzata da paesi che hanno quattrini?”. Il seguito di questa vicenda fu assai triste ed Ippolito fu anche ingiustamente accusato per irregolarità amministrative ed incarcerato. Quando Ippolito ricevette la grazia pochi anni dopo, nessuno era più interessato alla ricerca nucleare in Italia.

Era un buon argomento quello di Saragat? Non mi sembra, visto che oggi il nostro governo va a comprare, con il piattino in mano e la cenere in testa, le centrali nucleari dalla Francia (ma magari anche questa intenzione verrà spazzata via dal buon vento nord-africano). Inoltre la ricerca fondamentale è importante perché forma persone capaci di pensare, in grado di trasmettere conoscenze e formare le nuove generazioni (semplice ma al momento inconcepibile concetto che si chiama crescita culturale del Paese), e di affrontare problemi tecnologici, magari non estremi come quelli che si affrontano facendo ricerca di punta, ma che comunque hanno risvolti pratici immediati. Pensiamo alle persone che si sono formate a trattare nell’ambito della fisica delle particelle o dell’astrofisica, enormi quantità di dati: se domani si vorrà seriamente procedere all’informatizzazione della pubblica amministrazione, bisognerà far riferimento proprio a queste persone. Ma pensiamo anche al settore della meccatronica, ovvero a quelle piccole e medie imprese che costruiscono apparati meccanici in cui ci vuole un interfaccia elettronico.

Certo è che in Italia le imprese ad alta tecnologia sono oggi quasi del tutto scomparse, e con esse è calata significativamente la richiesta di personale specializzato. Sarà probabilmente questa una delle ragioni per cui la nostra classe imprenditoriale pensa che la ricerca sia un lusso inutile, ed infatti il finanziamento per la ricerca applicata da parte dei privati è anche a livelli infinitesimi. La questione dell’auto-referenzialità della ricerca è in questo senso un serpente che si morde la coda: l’unico riferimento rimane quello pubblico in quanto quello privato sta scomparendo. Per eliminare l’auto-referenzialità bisognerebbe eliminare la ricerca!

Ma c’è un’altra possibilità, ad esempio organizzando degli spin-off, ovvero creazione d’imprese a partire da idee brevettate, trasferendo i risultati della ricerca alle imprese attraverso i contratti di licenza. Ma il trasferimento di tecnologia richiede organizzazione sia a livello di università e di enti di ricerca che a livello normativo generale, e chiaramente bisognerebbe che ci sia qualcuno che se ne occupi. Per fare un esempio a caso, negli Stati Uniti la famosa Silicon Valley, dove vi è una concentrazione tra le più alte al mondo d’industrie ad alta tecnologia, si trova vicino alcune tra le più prestigiose università americane. Rispetto al modello del passato in cui erano le grandi industrie (ad esempio la chimica) o aziende particolarmente illuminate (ad esempio l’Olivetti, prima che venisse smantellata) a stimolare la ricerca, oggi può avvenire il processo inverso, che siano le piccole e grandi scoperte della ricerca a dare impulso alla creazione di piccole o grandi imprese. Ma di sicuro se si punta alla produzione di scarpe, si finirà per rimanere con le suole in mano vendendo le scope elettriche, magari fatte in Cina, del duo Berlusconi-Possa.

(pubblicato su Il Fatto Quotidiano online)

martedì 22 febbraio 2011

"Arriveremo su Marte?"



Fuga di cervelli, taglio alle risorse, riforma universitaria. La scienza italiana potrà tornare ai tempi di Fermi o Guglielmo Marconi?

intervengono:
  • Margherita Hack, astrofisico
  • Francesco Sylos Labini, astrofisico 
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  • Sabato 5 Marzo 2011  -  h. 18.30
    Sala "Luigi Bacci", Centro Direzionale Esagono - Banca Popolare di Ancona
    via Battistoni - Jesi

Chi ricerca trova. Speciale giornata sulla ricerca

Tutta la citta' ne parla (radio 3 22 febbraio)


Gli ospiti di oggi
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Luciano Maiani, presidente del Cnr  Francesco Sylos Labini, ricercatore in astrofisica del Cnr, autore insieme a Stefano Zapperi di I ricercatori non crescono sugli alberi (Laterza, 2010), tiene un blog sul sito del Fatto Quotidiano dove racconta e discute i temi legati alla ricercaValentina Paze', ricercatrice in Filosofia politica all' Universita' di Torino, e' autrice e curatrice di diversi saggi tra cui Il comunitarismo (Laterza, 2004), si occupa di comunitarismo, democrazia, diritti, società civile, populismo. E' stata per due anni affidataria del corso di "Teorie dei diritti umani", presso la facoltà di Scienze politiche, ma quest'anno non l'ha tenuto perché ha aderito alla protesta dei ricercatori contro il ddl Gelmini, dichiarandosi "indisponibile"Guido Possa, presidente della Commissione Cultura del SenatoMaria Torelli, preside dell' Istituto Regina Margherita del quartiere San Salvario di Torino
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lunedì 14 febbraio 2011

L’asino YouCut

Gli Stati Uniti sono un grande paese, in cui ne succedono di tutti i colori, sia nel bene che nel male. Mentre sicuramente il sistema universitario e scientifico degli Stati Uniti rappresenta un riferimento mondiale (pure troppo, visto le distorsioni degli “amerikani” nostrani), ogni tanto ci sono delle trovate che lasciano senza parole anche a noi, che pure di cose incredibili ne vediamo tutti i giorni.

Come segnalato da un articolo sulla rivista Science, il leader dei Repubblicani al Congresso, Eric Cantor (difficilmente imparentato con Georg Cantor), ha proposto un  esperimento secondo il quale i cittadini decidono come ridurre il finanziamento federale votando su vari programmi, e ha denominato questo esperimento “YouCut”. Ha poi proposto di applicare questo metodo ai progetti scientifici finanziati dalla National Sciente Foundation (Nsf, che è la principale fonte di finanziamento della ricerca di base negli Stati Uniti) e nel suo sito incoraggia i cittadini a cercare nella lista della Nsf e segnalare le ricerche “questionabili”. Dalla lista che ne verrà stilata la Camera voterà su quali finanziamenti siano da revocare.

Le ricerche finanziate dalla Nsf, come quelle assegnate da agenzie di questo genere in tutto il mondo, sono state valutate dai pari, ovvero da altri scienziati che sono gli unici a poter giudicare il merito di un progetto scientifico ed in genere devono passare un rigido processo di selezione per ottenere i finanziamenti (circa un quarto dei progetti presentati). Ed è altresì semplicemente ridicolo che un cittadino qualsiasi possa avere la benché minima idea sulla qualità di un progetto scientifico dalla lettura del suo titolo. Questa operazione demagogica si basa sull’idea che i contribuenti debbano sapere come vengano spesi i propri soldi.

Ma il punto riguarda se questa sia la via giusta, dal momento che il budget della Nsf (7 miliardi, beati loro) rappresenta lo 0,5% del  “federal discretionary budget” (il budget federale discrezionale)  che è impiegato a finanziare tutto quello che non è nel budget obbligatorio, ed include le voci più disparate, dalla formazione (education) alla sicurezza, dalla difesa ai trasporti, ecc. Questa operazione, secondo la rivista Science, ha come scopo primario la riduzione del finanziamento alla scienza e dunque “the U.S. scientific community needs to take a stand and let the House know that YouCut is both unwarranted and a waste of resources” (la comunità scientifica statunitense ha bisogno di prendere posizione e fa sapere alla Casa Bianca  che YouCut è sia non autorizzato, sia uno spreco di risorse).

Niente di nuovo sotto il sole, dunque: qui da noi abbiamo già assistito ad una delirante polemica sull’Asino dell’Amiata, una ricerca finanziata dal Ministero dell’Università e della Ricerca (tramite i progetti Prin, budget totale 100 milioni) e messa all’indice pubblicamente per mostrare l’inutilità di tante ricerche che vengono svolte dai soliti baroni. La parte ridicola della faccenda è che il ministro Gelmini possa contestare, dal solo titolo, delle ricerche che sono state approvate da un comitato di esperti (di nomina ministeriale). Di nuovo, ci troviamo di fronte ad un’operazione demagogica di denigrazione che non serve a nulla, se non  gettare fango sulla comunità scientifica ed aizzare una parte dell’opinione pubblica, che non sa come orientarsi, contro l’università e la ricerca. Per una volta possiamo concludere, e sono soddifazioni, di essere un passo avanti agli Stati Uniti.

Ps. A seguito del mio post su Valutazione e burocrazia mi è stato segnalato che, secondo sviluppi recenti di cui non ero a conoscenza, è stato deciso che nella prossima tornata del Rae non si farà uso di un sistema automatico di valutazione.
 
 

mercoledì 9 febbraio 2011

Valutazione e burocrazia

Un problema cruciale che vari paesi sviluppati stanno considerando riguarda  come organizzare unsistema di ricerca di base e dunque come investire e ripartire i fondi in maniera ottimale. Mentre non è semplice rispondere a questa domanda, ci si può chiedere come altri paesi hanno affrontato il problema, che tipo di risposte sono state sperimentate e se hanno funzionato rispetto al fine ultimo di migliorare la ricerca. Mentre da noi, dopo anni di gestazione (era stata ideata dal ministro Mussi) è appena nata l’Agenzia nazionale per la valutazione del sistema  universitario (Anvur), ed ancora non si capisce cosa debba fare e come, a parte il fatto che ne sono stati nominati sette membri, un esempio importante è sicuramente rappresentato dalla Research Assessment Excercise(Rae) che è stata iniziata in Inghilterra nel 1986, durante l’epoca Thatcher. La Rae ha funzionato fino al 2008 secondo le stesso schema ed ora verrà probabilmente cambiato in maniera abbastanza radicale per i motivi che illustrerò di seguito.

Ad intervalli di qualche anno, la valutazione della Rae viene eseguita in tutte le università. Vengono nominati i valutatori per ogni disciplina, ed i membri di ciascun dipartimento (e non di una università, per non confondere i diamanti con il carbone) devono selezionare una parte dei loro lavori da inviare ai comitati di valutatori, che li studieranno ed esprimeranno un giudizio sulla loro qualità. Ai dipartimenti con un buon giudizio verranno destinati fondi di ricerca, mentre a quelli con un cattivo giudizio i fondi saranno ridotti e ai membri verranno aumentate le ore di lezione. Inoltre alcuni dipartimenti con un cattivo giudizio sono stati anche chiusi. Bisogna considerare che la Rae èun’operazione costosa sia perché è necessario assumere persone che si dedichino completamente per seguire il gran volume di lavoro associato, sia perché richiede, ad ogni accademico, del tempo di lavoro non irrilevante.

Dunque la questione, posta in maniera magistrale da Donald Gillies nel suo libro How should research be organised?, è la seguente: questa costosa procedura ha migliorato la qualità della ricerca prodotta in Inghilterra? Infatti, mentre a prima vista la risposta a questa domanda dovrebbe essere ovvia, quando si studia il problema con una prospettiva storica, la risposta non è affatto scontata. Questo non significa che non sia necessario introdurre un sistema di valutazione, ma che bisogna farlo pensandoci bene e riflettendo a fondo sui punti critici che necessariamente sono presenti quando si vuole valutare un lavoro scientifico, sia esso prodotto da un singolo o da un dipartimento. Dunque è importante che il sistema sia affidato a persone esperte che si pongano il problema della riuscita dell’esercizio di valutazione e non a burocrati che contano il numero di pubblicazioni e citazioni in maniera automatico (tra l’altro, operazione che potrebbe essere svolta da un computer).

Lo strumento usato dalla Rae è una sorta di doppia revisione tra pari (peer review): un lavoro, per essere considerato, deve essere già stato pubblicato su una rivista che si basi proprio sulla revisione tra pari, e sarà quindi valutato dai comitati Rae una seconda volta. La Rae è dunque costruita in modo tale da “tagliare” i fondi ai ricercatori che non lavorano bene e darli a coloro che lavorano bene. Il punto fondamentale su cui si concentra l’analisi e la critica di Donald Gillies riguarda invece un problema complementare: che in questa maniera, basando la valutazione sulla doppia peer review, si possano tagliare i fondi ai ricercatori che lavorano su progetti che in un certo momento storico non sono considerati importanti, ma che invece potrebbero esserlo in futuro, mentre si finanziano solo i ricercatori che sono impegnati nei progetti di mainstream.

Per capire questo problema è necessario considerare degli esempi storici, che certo non mancano, come magistralmente illustrato da Thomas Kuhn nel suo La struttura delle rivoluzioni scientifiche. In pratica, il problema da porsi è come riuscire a non eliminare dei progetti innovativi poco apprezzati dalla maggioranza dei ricercatori del momento. La soluzione a questo problema è chiaramente molto complessa perché non si può prevedere il futuro. Ma forse queste riflessioni insegnano che sia necessario dare spazio anche alle “fluttuazioni”, ovvero a progetti poco popolari ma portati avanti da persone serie e con determinazione: la scienza non è democratica, nel senso che non va avanti nella direzione di quello che pensa la maggioranza degli scienziati.

Il motivo per il quale la Rae è stata recentemente ristrutturata è semplicemente il seguente: se i valutatori, anche con le migliori intenzioni, devono leggere decine, se non centinaia, di articoli e libri, generalmente difficili, in un tempo limitato, saranno capaci di dedicare il tempo necessario per giudicarli in maniera corretta, visto che le loro decisioni avranno degli effetti importanti sulle persone? Il governo inglese ha iniziato a dubitare che questo sia il caso, e dunque, anche per diminuire la spesa della Rae, ha ridisegnato la valutazione in modo molto più semplice: ilconteggio delle metriche, ovvero quante pubblicazioni, quante citazioni per pubblicazione, quante pubblicazioni su riviste ad alto impact factor, ecc. In questa maniera i valutatori non devono essere degli scienziati, ma è sufficiente che siano delle persone che sappiano usare i database dove sono indicizzate le pubblicazioni e le citazioni. Il problema di fondo, se questo sistema funzioni e realmente porti ad un miglioramento della qualità, è lo stesso che nella Rae vecchia maniera. Da una parte questo metodo, se ben implementato tenendo conto delle peculiarità delle diverse discipline (come ho discusso in un post precedente) può aiutare ad identificare i casi limite di ricercatori che non lavorano, dall’altro porta con sé lo stesso rischio di eliminare ricerche innovative poco popolari ed incoraggiare i ricercatori a lavorare sui paradigmi del mainstream.

Dunque per evitare il paradosso di un sistema di valutazione che abbassi anziché aumentare la qualità della ricerca, è necessario prestare molta attenzione ai vari casi che potrebbero verificarsi sia in negativo (ricercatori improduttivi) che in positivo (ricercatori che lavorano su progetti potenzialmente importanti ma poco popolari). Come messo in luce anche da Roberto Natalinil’ideale, dal punto di vista di un ricercatore, sarebbe avere  a che fare con persone di alto livello scientifico che dedichino tempo ed energia per capire i problemi. Ma questa operazione, oltre a richiedere tanto tempo, richiede anche risorse non banali e, come messo in luce da Pier Luigi Biggeri(a capo del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario),  l’Anvur, oltre ad essereuna scatola vuota, ha attualmente meno di un decimo delle risorse destinante ad una simile agenzia in Francia. E poi, chissà quali sono i fondi che distribuirà tra i ricercatori meritevoli…

lunedì 7 febbraio 2011

The Age Structure of University Staff in Italy and the UK


Donald Gillies, e' ora Professore Emerito di Filosofia della Scienza e Matematica all' University College London. E' autore, tra gli altri,dei libri:  La filosofia della scienza nel XX secolo (insieme a Giulio Gioriello) Intelligenza artificiale e metodo scientifico, e del libro (in inglese) How Should Research be Organised?. Ci ha mandato delle riflessioni sul nostro libro "I ricercatori non crescono sugli alberi" che siamo onorati di pubblicare.

The Age Structure of University Staff in Italy and the UK

by Donald Gillies, University College London



1. Introduction. What is the most serious problem facing the Italian universities?

In recent years there have been a number of books criticizing the present situation in Italian universities and suggesting reforms. Among the usual targets for criticism are familism and the power of the barons. Francesco Sylos Labini and Stefano Zapperi’s book: I ricercatori non crescono sugli alberi, Laterza, 20101 is unusual in that, in chapter 2: Università Invecchiata, it draws attention to another problem which is usually overlooked. This problem is, however, perhaps the most serious problem facing the Italian universities. It has already had very negative consequences, and will almost certainly have even worse consequences in the future if nothing is done about it. This problem is posed by the unusual age structure of university staff in Italian universities. Compared to other comparable countries such as France, Spain or the UK, the staff in Italian universities are significantly older. It is also much harder for a younger person to get an appointment in an Italian university than in universities in other countries. So the imbalance in age structure is steadily getting worse, with a possible catastrophe looming in a decade or so. Something should be done about this problem, and, for that reason, I think that a comparison of the situation in Italy and the UK may be helpful. The UK has avoided this problem, and so the UK experience may be helpful in considering how the problem should be dealt with. In the next section, I will give a brief outline of the situation based on the book of Sylos Labini and Zapperi, and then I will turn to consider what remedies might be adopted.