"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




mercoledì 20 aprile 2011

Enti di ricerca, la profezia di Carlo Rubbia






Da una decina d’anni a questa parte gli enti di ricerca pubblici hanno subito tagli di bilancio e blocchi nell’assunzione di personale. I concorsi per il reclutamento sono stati pochi e, secondo l’infelice tradizione italica, molto irregolari. Questa situazione, insieme alla paralisi che caratterizza le università, sta mettendo in seria crisi il sistema della ricerca italiana e chiaramente a pagarne le conseguenze più amare sono le generazioni più giovani che non riescono a trovare sbocchi. Otto anni fa si è deciso che, invece di investire negli enti di ricerca esistenti, era opportuno fondare un nuovo istituto. Nacque così l’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit) accompagnato da una grande retorica che lo dipingeva sin dalla fondazione come il primo istituto di eccellenza in Italia. Anche ora viene spesso additato dai suoi promotori come esempio di eccellenza nel panorama della ricerca. E’ proprio così?

La curiosità ci ha spinto a fare una piccola indagine sulle performance dell’Iit e  dei principali enti di ricerca pubblici italiani. In particolare abbiamo paragonato i costi e la produttività scientifica dell’Iit con quelli del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr), dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv). I risultati sono stati ripresi da molti quotidiani nazionali e stanno avendo un’inaspettata risonanza. Alcuni  hanno interpretato il nostro semplice studio come una classifica degli enti di ricerca mentre altri ci hanno fatto presente che non abbiamo considerato degli aspetti importanti del problema. Sono sicuramente tante le variabili aggiuntive da considerare e chiaramente solo un’istituzione apposita può fare uno studio sistematico del genere. Noi abbiamo solo dato uno sguardo dall’alto in maniera certamente approssimativa. Per questo motivo non abbiamo fatto nessuna classifica degli enti, ma solo un confronto molto grossolano, anche se, a nostro parere, significativo.

I risultati del nostro studio mostrano che, mentre la produttività dei vari enti pubblici è circa equivalente, “l’Iit  rappresenta sicuramente una fluttuazione negativa anomala nel panorama degli enti di ricerca italiani”: la produttività è decisamente inferiore a quella degli altri enti di ricerca a fronte di un finanziamento decisamente superiore. Malgrado questa situazione, l’Iit viene spesso presentato come un modello di eccellenza della ricerca italiana. Questo semplice  esempio mostra in maniera lampante la necessità di fare chiarezza sullo stato della ricerca in Italia, perché quando nessuno sa niente si può spacciare qualsiasi mistificazione per verità.

Carlo Rubbia, semplice premio Nobel per la fisica che certo non raggiunge le vette di un professore d’economia alla Bocconi ed editorialista del Corriere della Sera, era stato molto critico al momento della fondazione dell’Iit, nel 2003: “Mi pare che non ci sia molta consapevolezza su che cosa significhi la nascita di un organismo del genere: tutto è molto più complicato di quanto si immagina. Nessuno, comunque, mi ha chiesto che cosa ne penso. Invece devo constatare che c’è un silenzio assordante sugli altri enti italiani di ricerca già esistenti come il Cnr, l’istituto di fisica nucleare, lo stesso Enea. Per cominciare a raccogliere qualche frutto da una istituzione nuova occorrerà una decina d’anni e intanto che cosa succede agli altri enti? E poi perché crearne un altro se quelli già attivi possono fare le stesse cose? Di questi, invece, non si parla più. Risolviamo i problemi che hanno ma salviamo ciò che di buono offrono e sosteniamoli con una politica di sviluppo. Si destinano 100 milioni di euro l’anno al neonato organismo quando l’intero contributo dello Stato all’Enea, 3.700 dipendenti e 10 laboratori, è di 200 milioni di euro l’anno. Che cosa poi debba fare il fantomatico Mit italiano è oscuro”.

Di parere diametralmente opposto era stato il prof. Giavazzi, che scrisse: “Riversare più fondi in questo sistema [pubblico, ndr] è come buttarli al vento e che l’unico modo per garantire “rigore, controlli ed incentivi …è muoversi all’esterno dell’università italiana di oggi. Vittorio Grilli ci sta provando con l’Iit: è per questo che cerchiamo di aiutarlo mentre tutti i conservatori lo criticano”. Curiosa situazione quella in cui il prof. Giavazzi bolla come conservatore Carlo Rubbia. Malgrado negli ultimi anni gli enti di ricerca pubblici siano stati trattati da carrozzoni statali, fonte di sprechi e alloggio dei buona a nulla, e dunque soggetti ideali per tagli di risorse,  l’Iit non è stato, finora,  per buona pace del prof. Giavazzi,  “uno strumento per far compiere un salto al Paese, perché introdurrà la competizione nel mondo dell’università e della ricerca e romperà lobby e baronie”: piuttosto un istituto che ha prodotto risultati molto modesti rispetto al resto degli enti pubblici, malgrado un ingente finanziamento e una grande agilità nell’amministrazione.

Carlo Rubbia era stato dunque un buon profeta. Nell’intervista citata aggiunse anche un altro paio di considerazioni di buon senso, subito dimenticate e ortogonali al Giavazzi-Iit-pensiero:  “La ricerca applicata è una banalità. Come diceva Einstein esistono soltanto le applicazioni della ricerca. Prima, però, bisogna investire nella scienza fondamentale. Oggi non avremmo l’ingegneria genetica se Watson e Crick non avessero scoperto cinquant’anni fa la struttura del Dna. Puntare solamente alla ricerca applicata è un grosso errore”. E sostenne inoltre che bisogna “puntare sui ricercatori. Nei discorsi che si ascoltano negli ultimi tempi ci si dimentica degli uomini e delle donne che fanno ricerca. Inseguiamo modelli stranieri ma intanto da tre anni sono bloccate le assunzioni e oggi l’età media di chi lavora è intorno ai 50 anni, quindi fuori gioco. Nel frattempo ci sfuggono le nuove generazioni dalle quali nascono i risultati. In altre parole, si è perso il fulcro della discussione”.  Tutto puntualmente avvenuto.


(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano 20.4.2011)

Il caso IIT sulla stampa

A seguito dell'articolo "Enti di ricerca e IIT dov'e' l'eccellenza" vi sono stati numerosi commenti ed articoli. qui un'ampia selezione
 

lunedì 18 aprile 2011

Ecco i campioni della ricerca in Italia

(Elena Dusi, La Repubblica 18.4.2011)

Al top per efficienza gli Istituti di Fisica nucleare e di Astrofisica. Il nostro Paese si difende: è al sesto posto nel mondo per numero di pubblicazioni. Non decolla il promettente Iit 

 

 ROMA - Eppur ci siamo. Nonostante uno dei finanziamenti per la ricerca più bassi al mondo (1,14% del Pil), l'Italia è al sesto posto per produzione scientifica. L'ultima classifica della Royal Society britannica ci attribuisce il 3,7% delle pubblicazioni che vengono citate in altri studi al mondo (uno degli indici usati per misurare la qualità della scienza), con gli Usa in testa al 30%.

Ma il panorama del paese è tutt'altro che omogeneo, e a scavare tra eccellenze e inefficienze sono andati Francesco Sylos Labini, astrofisico del Centro Fermi e del Cnr e Angelo Leopardi, docente di idraulica all'università di Cassino. Il loro articolo "Enti di ricerca e Iit: dov'è l'eccellenza" è stato pubblicato da "Scienza in rete" la rivista online del "Gruppo 2003 per la ricerca scientifica" che comprende alcuni fra gli studiosi italiani col maggior numero di citazioni. Incrociando i dati fra personale, finanziamenti e pubblicazioni sulle riviste scientifiche, la loro analisi offre un quadro ragionato di quali sono gli enti che muovono la ricerca scientifica in Italia.


Il gigante Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) ha 6.600 dipendenti e ottiene dallo Stato 566 milioni di euro all'anno per 6.300 pubblicazioni. Ogni studio in media costa dunque 89 mila euro e il rapporto fra scienziati e articoli è praticamente pari a uno (0,96). Il rapporto Scimago - un database internazionale che misura le performance dei vari istituti di ricerca - piazza il Cnr al primo posto
in Italia e al 23esimo al mondo su un totale di quasi 2.900 enti di ricerca, ma tiene conto solo del numero delle pubblicazioni e non dei costi sostenuti.


Più efficienti del Cnr - secondo l'analisi di Sylos Labini e Leopardi - sono Infn e Inaf. L'Istituto nazionale di fisica nucleare ha 1.900 dipendenti e gli alti investimenti che i suoi esperimenti richiedono sono finanziati ogni anno dallo Stato con 270 milioni. La produzione scientifica è molto alta: 2.423 pubblicazioni all'anno. Ogni studio costa in media 111mila euro e ciascun ricercatore è autore di 1,27 articoli. Nel rapporto Scimago 2010, l'Infn si è piazzato al 181esimo posto. I più parsimoniosi in assoluto fra gli scienziati italiani lavorano all'Inaf, Istituto nazionale di astrofisica, posizione 397 nella classifica Scimago. In 1.130 ogni anno producono 1.356 articoli (1,2 a scienziato) con un finanziamento di 91 milioni di euro. Ogni loro pubblicazione costa al paese in media 67 mila euro. Un'inezia rispetto all'ultimo ente della classifica, quell'Istituto italiano di tecnologia che venne fondato nel 2003 per ricoprire il ruolo di "Mit italiano", ma che ancora non riesce a decollare.

Con 100 milioni all'anno di finanziamenti fissati dalla legge 363/2003 fino al 2014, l'Iit fa lavorare 811 scienziati, che nel 2009 (anno a cui si riferiscono i dati) hanno pubblicato 274 ricerche. La produttività di ogni ricercatore è di appena 0,34 articoli, ognuno dei quali costa ai contribuenti 363 mila euro, oltre il quintuplo rispetto all'Inaf. Nella classifica Scimago, il "Mit italiano" che ha sede a Genova, un'età media dei ricercatori di 34 anni e solo 2 dei 374 scienziati con un contratto a tempo indeterminato secondo il principio della competitività anglosassone, si piazza nella casella 2.823 su un totale di 2.833. Il direttore scientifico Roberto Cingolani, un fisico esperto di nanotecnologie, spiega che "l'Istituto italiano di tecnologia è nato di recente e ha bisogno di tempo per raggiungere criteri sufficienti per la valutazione". Ma di certo all'Iit - a differenza degli altri enti di ricerca che nuotano nelle ristrettezze - non sono mai mancati i mezzi, inclusi 128 milioni di euro provenienti dalla liquidazione dell'Iri nel 2008 e il lampante conflitto di interessi di un Vittorio Grilli che è allo stesso tempo direttore generale del ministero del Tesoro e presidente dell'Iit. Non stupisce con queste premesse che il 15 marzo la Corte dei Conti abbia lodato l'Istituto per il suo avanzo di bilancio di 60 milioni di euro. Si attende ora che questi soldi siano usati per migliorare ancora la posizione dell'Italia nella ricerca del mondo.

venerdì 15 aprile 2011

Discussione su "La Valutazione"



Video di una presentazione di FSL sul tema "La Valutazione" presso la FLC-CGIL Roma Marzo 2011

mercoledì 13 aprile 2011

La ricerca non trova merito



Intervista a FSL su il Sole 24 Ore del 13 Aprile 2011 (A cura di Marco Magrini)

lunedì 11 aprile 2011

Come si divide la torta della ricerca




Un grande problema nella gestione della ricerca moderna riguarda la divisione dei fondi tra i diversi ricercatori e gruppi. In un interessante libretto dal titolo La scienza malata? Come la burocrazia soffoca la ricerca, Laurent Ségalat, genetista francese, tra le altre considerazioni interessanti ed argute sullo stato della ricerca contemporanea, scrive:

La torta deve arrivare ai migliori, dice il dogma… I ricercatori pubblici sono dei funzionari, impiegati statali. Lo Stato mette in competizione i suoi impiegati per l’attribuzione delle risorse per lavorare, e ciò con una proporzione di appena una domanda accettata su quattro. Quale manager, quale economista adotterebbe un sistema di produzione così incredibile? Quale azienda con una forte componente di ricerca e sviluppo sopravvivrebbe più di qualche anno funzionando in questo modo?… Ci diciamo che la piccola proporzione di progetti accettati [per il finanziamento, ndr] sia una garanzia di qualità degli stessi… Immersi nell’ideologia per cui la competizione è il motore della ricerca, equiparando la competizione tra gruppi di ricerca alla competizione tra aziende, votati all’idea secondo cui i funzionari devono essere stimolati per non addormentarsi, i nostri responsabili politici giungo alla conclusione che sempre più competizione significa una ricerca continuamente migliorata… Qui sta il loro errore fondamentale. Perché se un po’ di competizione fa bene alla ricerca pubblica… esiste una soglia nel livello di competizione oltre la quale la ricerca crea più effetti nefasti che positivi”.

In generale possiamo identificare tre strategie possibili a questo riguardo: finanziare il top 10% dei ricercatori (o dei progetti), finanziare a pioggia (il 100%) o finanziare una frazione consistente (dell’ordine del 50%). La domanda riguarda dunque quale sia la strategia migliore. Mentre si può ragionevolmente concludere che il finanziamento a pioggia non sia la scelta ottimale, dato che c’è in ogni sistema una parte che funziona male o non funziona proprio, la questione è se la scelta  di finanziare pochi ricercatori ritenuti eccellenti abbia realmente senso e se invece non convenga adottare una strategia che divida la torta dei finanziamenti su un numero consistente di ricercatori.

Il problema non è infatti solo quello di finanziare le eccellenze già note di oggi, ma soprattutto di dare una possibilità perché si sviluppino quelle eccellenze di domani che oggi sono “solo” ricercatori di buona qualità. Se fosse possibile avere la sfera di cristallo e sapere prima di finanziarle quale sono le ricerche che condurranno a scoperte importanti, e dunque d’eccellenza, la questione sarebbe semplice da gestire. Sfortunatamente non è questo il caso, e dunque piuttosto che ipotizzare  quello che potrebbe avvenire nel futuro conviene prima di tutto capire quello che è successo nel passato. Qualsiasi strategia venga adottata, dovrebbe passare un test ideale: se si fosse adottata quella strategia nella selezione di un progetto qualche anno fa, si sarebbe fatta la scelta giusta? Considerando un intervallo di tempo sufficientemente lungo, diciamo una ventina d’anni,  ed uno studio sistematico di quali progetti o ricercatori sono stati finanziati, dovrebbe essere possibile farsi un’idea abbastanza chiara su quale sia la risposta a questa domanda.

Questo studio dovrebbe essere fatto da ogni istituzione che ha a cuore il problema di come ripartire i fondi in maniera ottimale; per fare un esempio recente, consideriamo i ricercatori che hanno ottenuto il premio Nobel per la fisica nel 2010, Andrei Geim e Konstantin Novoselov. Il lavoro per il quale hanno avuto un rapidissimo e grandissimo successo è stato pubblicato nel 2004 quando entrambi avevano dei “numeri” non certo fuori dal comune: qualche decina di pubblicazioni e un migliaio di citazioni. Mentre il numero di pubblicazioni dal 2004 ad oggi è cresciuto solo un fattore due più della loro serie storica fino al 2004, il numero di citazioni è esploso ed oggi si aggira intorno a 20mila, che è chiaramente un numero considerevole per un fisico.  Dunque oggi qualsiasi commissione riconoscerebbe la loro eccellenza (a prescindere dal fatto che hanno preso il premio Nobel). Il problema più sottile ed importante riguarda  la domanda: se un’ipotetica commissione avesse dovuto scegliere il loro progetto nel 2004, quando erano dei “normali” bravi fisici, li avrebbe messi nel top 10%?

Premiare le eccellenze d’oggi è facile, ma più difficile è capire chi oggi, nel grande magma dei ricercatori di buona qualità, diventerà l’eccellenza di domani. Questo è il problema di fondo della valutazione, e a me sembra che le osservazioni di Ségalat siano del tutto condivisibili: finanziare solo un piccolo numero di progetti non è la strategia più efficace da attuare. Questo però è quello che succede a livello europeo, ad esempio con le borse del European Reserach Council, in cui il tasso di successo è circa il 10%.
Siamo sicuri che il ministro Gelmini non faccia altro che pensare a questi problemi per aumentare la capacità della ricerca di questo paese e per trovare soluzioni ottimali che vadano incontro alle esigenze reali dei ricercatori, avendo come stella polare la parola “meritocrazia”. Anzi, è evidente che ci sta pensando a fondo: ad esempio i progetti di ricerca di interesse nazionale (Prin) del 2009 sono stati banditi nel 2010 e a oggi devono essere ancora selezionati e finanziati. Ma d’altronde che fretta c’è? La vera meritocrazia, quella pensata dal ministro Gelmini e da quel manipolo di geni, poeti ed eroi che la consiglia, ha i suoi tempi per essere attuata e dunque possiamo aspettare con fiducia e tranquillità qualche altro anno per vedere come saranno assegnati i fondi Prin. Se il prof. Giavazzi ci insegna cheriversare più fondi nel sistema pubblico è come gettarli al vento, in fin dei conti possiamo essere tranqulli che questo non accada in quanto i finanziamenti Prin, oltre ad arrivare con qualche anno di ritardo, oltre ad essere divisi applicando criteri di selezione piuttosto dubbi,  si aggirano a 9.000 euro a ricercatore e dunque, nel caso, al vento si gettano solo le briciole per gli uccellini, o per gli avvoltoi a seconda dei casi.

(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano online)

Segnalazione: 
PERCHE' DEVONO ESSERE PREMIATE SOLO LE ECCELLENZE?








di Alessandro Figa' Talamanca

venerdì 8 aprile 2011

Discussione con Margherita Hack (video)



 

(parte 1/3)

 

 

 

 

(parte 2/3)

 

(parte 3/3)

 

 

 

Video dell'incontro organizzato dalla Fondazione Gabriele Cardinaletti a Jesi "Arriveremo su Marte?"  con Margherita Hack,  e Francesco Sylos Labini,

venerdì 1 aprile 2011

Enti di Ricerca e IIT: dov’è l’eccellenza


(di Francesco Sylos Labini ed Angelo Leopardi) 

Gli enti di ricerca italiani sono nel mezzo di una complessa fase di riordino, e molto si discute di quale sia il modello cui ispirarsi. La novità più recente è la comparsa sulla scena da qualche anno dell'Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), che è stato concepito come un paradigma di eccellenza. In particolare, a differenza dei normali enti vigilati dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) che devono sottostare ad una quantità abnorme di regole e leggi, l’IIT ha uno stato giuridico completamente diverso, e questo comporta uno snellimento della burocrazia ed una maggiore elasticità, ad esempio, negli stipendi, nelle assunzioni ecc. Questa situazione dovrebbe dare all’IIT un notevole vantaggio in termini di produttività e costi.