"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.
mercoledì 29 dicembre 2010
mercoledì 22 dicembre 2010
Natura abhorret a vacuo
La natura rifiuta il vuoto. L’Italia, a quanto pare, per il momento no. Un vuoto intorno a noi che si espande in ogni dove: un vuoto culturale e politico. E’ intorno a quella splendida manifestazione di centomila e più persone che ha pacificamente attraversato Roma lo scorso 14 dicembre. E’ dentro quelle centinaia che hanno selvaggiamente e stupidamente spaccato vetrine, incendiato, picchiato ed a quelle migliaia che hanno incitato o almeno che non hanno criticato. Ma è anche intorno a quei tutori dell’ordine che si trovavano in strada, che le hanno prese e le hanno date e che il giorno prima e qualche giorno dopo avevano anche loro manifestato per ragioni analoghe a quelle degli universitari, dei terremotati dell’Aquila e dei sommersi d’immondizia di Terzigno: non solo contro i tagli, ma per rivendicare la propria dignità. Ed il vuoto è intorno ai ricercatori sui tetti che stanno ancora cercando invano qualcuno con cui discutere della riforma universitaria, che sia capace di mettere insieme qualche concetto che vada al di là di qualche insulso slogan. Ma è vuoto che sta intorno anche a quella parte di docenti universitari più anziani che hanno perso qualsiasi riferimento e che si trovano sperduti e atomizzati, che vorrebbero reagire ma non sanno da che parte incominciare.
E’ un vuoto che si trova soprattutto intorno a tutti quanti quelli che hanno alzato la testa per vedere se ci sia qualcuno all’orizzonte che li ascolti, che li rappresenti, che capisca le ragioni di un malessere che non è solo generazionale ma che diventa ogni giorno più trasversale in ogni direzione lo si guardi e lo si consideri. E’ il vuoto che si legge negli editoriali dei grandi giornali dove i ragionamenti partono da basi irreali e sfociano in considerazioni sbandate. E’ il vuoto che sta intorno al sindacato che cerca di arginare il malessere, ma vi si trova sommerso da ogni dove. Rendersi conto del vuoto intorno è un punto di partenza, che è mancato nelle lamentele dei più in questi anni, degli indifferenti che criticano questo e quello solo di fronte al caffé. Perché la presa di coscienza di questo vuoto può trasformare l’inedia e l’indifferenza in un’energia positiva e propositiva. Perché se non avviene questo la natura, anche in Italia, rifiuterà il vuoto: qualcosa lo riempirà ed il peggio è sempre in agguato.
Giovanni Sartori descrive la situazione con queste parole: “Sì, i giovani di oggi avranno una vita dura. Ma fu dura anche la vita dei giovani che si trovarono, dopo la fine dell’ultima guerra, con un Paese distrutto e un avvenire che sembrava senza avvenire. Noi, i giovani di allora, ce la siamo cavata”. A me sembra che il paragone con la generazione che è uscita dalla guerra non sia del tutto pertinente. C’è una similarità nel fatto che nel Paese oggi ci sono macerie morali ed etiche ma, per il momento almeno, non materiali. I giovani degli anni ‘40 e ‘50 avevano di fronte un paese anche materialmente da ricostruire e la possibilità di farlo pur tra mille difficoltà. Oggi c’è una generazione che non vede una via d’uscita e per la quale l’avvenire è solo un tunnel buio: trova ovunque uncartello con scritto “occupato”. E’ tutto troppo occupato, non ci sono vie di fuga dal vuoto e soprattutto nessuno che se ne occupi per capire come fare.
Sartori conclude il suo editoriale scrivendo “Ma i giovani di oggi che si battono contro la riforma universitaria Gelmini si battono a proprio danno e per il proprio male”. Ma come, anche Sartori, l’inventore dell’ “homo videns” che ha messo lucidamente a fuoco il primato dell’apparire rispetto alla sostanza, ci viene a raccontare, senza discuterne la ragione nel merito, che la riforma Gelmini è una buona riforma. E’ proprio questa la perdita di ogni riferimento culturale e di ogni orientamento in un Paese disgregato. Perché si può essere d’accordo o meno con la riforma Gelmini, non è questo il punto. Il punto è che quando si prende posizione bisogna saper illustrare le proprie ragioni, altrimenti non si tratta di presentare posizioni meditate quanto invece di riflettere slogan esterni che vengono ripetuti alla nausea da ogni trasmissione televisiva. E ad oggi, vigilia della probabile approvazione del ddl Gelmini, qualcuno che sappia illustrare, partendo dal testo, cosa questo prevede di buono e perché ed in cosa sia condivisibile e difendibile, ancora non si è visto (a parte le balle che ci racconta il prof. Giavazzi, ça va sans dire).
Irene Tinagli, giovane talento nostrano, dopo tanti anni passati a sgobbare nelle famose “migliori università americane”, riesce però ad osservare che “anche i ricercatori salgono sui tetti per difendere i loro contratti” per concludere che “i ricercatori hanno paura della concorrenza degli scienziati stranieri”. Mentre è ovviamente falso affermare che i ricercatori salgono sui tetti per difendere i loro contratti, trattandosi di ricercatori già assunti con contratti a tempo indeterminato, è stupefacente la seconda considerazione: forse nelle prestigiose università frequentate dalladottoressa Tinagli si stanno già formando le file di ricercatori stranieri pronti a venire a lavorare in Italia, ma noi qui nella paludosa colonia di stranieri non ne abbiamo proprio visti e da un pezzo. C’è forse bisogno di ricordare che gli stipendi d’ingresso in Italia sono tra i più bassi in Europa? O forse che i progetti di ricerca dell’anno 2009 ancora non sono stati finanziati? O che le risorse per le università per l’anno 2010 ancora non sono state assegnate? Ma non diciamolo ad alta voce, che forse gli “scienziati stranieri” non lo hanno ancora scoperto e dunque verranno lo stesso a fare concorrenza a quei pelandroni dei ricercatori italiani.
Di fronte a questa decadenza generalizzata è necessario ripartire dal ricostruire un riferimento culturale prima ancora che politico. Ma una cosa è certa: non si esce da un ventennio di Berlusconismo fischiettando e ci sarà bisogno di tanta pazienza, intelligenza ed immaginazione per ricostruire un Paese distrutto moralmente e per attraversare un periodo di turbolenze che non si annuncia breve.
(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano online)
E’ un vuoto che si trova soprattutto intorno a tutti quanti quelli che hanno alzato la testa per vedere se ci sia qualcuno all’orizzonte che li ascolti, che li rappresenti, che capisca le ragioni di un malessere che non è solo generazionale ma che diventa ogni giorno più trasversale in ogni direzione lo si guardi e lo si consideri. E’ il vuoto che si legge negli editoriali dei grandi giornali dove i ragionamenti partono da basi irreali e sfociano in considerazioni sbandate. E’ il vuoto che sta intorno al sindacato che cerca di arginare il malessere, ma vi si trova sommerso da ogni dove. Rendersi conto del vuoto intorno è un punto di partenza, che è mancato nelle lamentele dei più in questi anni, degli indifferenti che criticano questo e quello solo di fronte al caffé. Perché la presa di coscienza di questo vuoto può trasformare l’inedia e l’indifferenza in un’energia positiva e propositiva. Perché se non avviene questo la natura, anche in Italia, rifiuterà il vuoto: qualcosa lo riempirà ed il peggio è sempre in agguato.
Giovanni Sartori descrive la situazione con queste parole: “Sì, i giovani di oggi avranno una vita dura. Ma fu dura anche la vita dei giovani che si trovarono, dopo la fine dell’ultima guerra, con un Paese distrutto e un avvenire che sembrava senza avvenire. Noi, i giovani di allora, ce la siamo cavata”. A me sembra che il paragone con la generazione che è uscita dalla guerra non sia del tutto pertinente. C’è una similarità nel fatto che nel Paese oggi ci sono macerie morali ed etiche ma, per il momento almeno, non materiali. I giovani degli anni ‘40 e ‘50 avevano di fronte un paese anche materialmente da ricostruire e la possibilità di farlo pur tra mille difficoltà. Oggi c’è una generazione che non vede una via d’uscita e per la quale l’avvenire è solo un tunnel buio: trova ovunque uncartello con scritto “occupato”. E’ tutto troppo occupato, non ci sono vie di fuga dal vuoto e soprattutto nessuno che se ne occupi per capire come fare.
Sartori conclude il suo editoriale scrivendo “Ma i giovani di oggi che si battono contro la riforma universitaria Gelmini si battono a proprio danno e per il proprio male”. Ma come, anche Sartori, l’inventore dell’ “homo videns” che ha messo lucidamente a fuoco il primato dell’apparire rispetto alla sostanza, ci viene a raccontare, senza discuterne la ragione nel merito, che la riforma Gelmini è una buona riforma. E’ proprio questa la perdita di ogni riferimento culturale e di ogni orientamento in un Paese disgregato. Perché si può essere d’accordo o meno con la riforma Gelmini, non è questo il punto. Il punto è che quando si prende posizione bisogna saper illustrare le proprie ragioni, altrimenti non si tratta di presentare posizioni meditate quanto invece di riflettere slogan esterni che vengono ripetuti alla nausea da ogni trasmissione televisiva. E ad oggi, vigilia della probabile approvazione del ddl Gelmini, qualcuno che sappia illustrare, partendo dal testo, cosa questo prevede di buono e perché ed in cosa sia condivisibile e difendibile, ancora non si è visto (a parte le balle che ci racconta il prof. Giavazzi, ça va sans dire).
Irene Tinagli, giovane talento nostrano, dopo tanti anni passati a sgobbare nelle famose “migliori università americane”, riesce però ad osservare che “anche i ricercatori salgono sui tetti per difendere i loro contratti” per concludere che “i ricercatori hanno paura della concorrenza degli scienziati stranieri”. Mentre è ovviamente falso affermare che i ricercatori salgono sui tetti per difendere i loro contratti, trattandosi di ricercatori già assunti con contratti a tempo indeterminato, è stupefacente la seconda considerazione: forse nelle prestigiose università frequentate dalladottoressa Tinagli si stanno già formando le file di ricercatori stranieri pronti a venire a lavorare in Italia, ma noi qui nella paludosa colonia di stranieri non ne abbiamo proprio visti e da un pezzo. C’è forse bisogno di ricordare che gli stipendi d’ingresso in Italia sono tra i più bassi in Europa? O forse che i progetti di ricerca dell’anno 2009 ancora non sono stati finanziati? O che le risorse per le università per l’anno 2010 ancora non sono state assegnate? Ma non diciamolo ad alta voce, che forse gli “scienziati stranieri” non lo hanno ancora scoperto e dunque verranno lo stesso a fare concorrenza a quei pelandroni dei ricercatori italiani.
Di fronte a questa decadenza generalizzata è necessario ripartire dal ricostruire un riferimento culturale prima ancora che politico. Ma una cosa è certa: non si esce da un ventennio di Berlusconismo fischiettando e ci sarà bisogno di tanta pazienza, intelligenza ed immaginazione per ricostruire un Paese distrutto moralmente e per attraversare un periodo di turbolenze che non si annuncia breve.
(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano online)
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domenica 19 dicembre 2010
Questo DDL è contro l'autoreferenzialità!
Terza parola chiave: l'università è autoreferenziale. Tra gli slogan mediatici e la realtà messa in campo dal testo normativo c'è una pericolosa distanza che proviamo a spiegare. In particolare per l'obbligo (non la facoltà...) di inserire soggetti esterni nel nuovissimo e onnipotente Consiglio di Amministrazione.
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venerdì 17 dicembre 2010
Questo DDL è per i giovani!
Sarà vero quel che dice il ministro che questa riforma è per i giovani ? Date un'occhiata a questi due video per saperne di più...
NB: doppio click sul video per aprirlo in Youtube (per trasmetterlo ad altri, cambiare la risoluzione di visualizzazione ecc.)
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venerdì 10 dicembre 2010
Questo DDL è contro i baroni !
Sarà vero quel che dice il ministro che questa riforma è contro i poteri dei baroni? Date un'occhiata a questi due video per saperne di più...
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domenica 5 dicembre 2010
Arrivano i loro
Il Partito Democratico, nelle vicende parlamentari del ddl Gelmini, prima alla Camera e poi con il rinvio del Senato, ha agito con una determinazione poche volte vista prima e soprattutto in sintoniacon i ricercatori, i docenti e gli studenti. Ne ha ascoltato le ragioni, con loro ha discusso dei contenuti della riforma e con loro ha anche messo a punto la strategia politica. Malgrado le perplessità iniziali, da parte di entrambi, si è faticosamente trovato un terreno comune. Come sottolineato da Walter Tocci, che insieme a Manuela Ghizzoni e Giovanni Bachelet, è stato tra i deputati che più si sono impegnati nell’opposizione parlamentare al ddl Gelmini, “Intanto lasciatemi dire che è stata una bella vittoria. Merito di un grande movimento di studenti, ricercatori e professori che, e questo è finalmente un bel fatto nuovo, si è dato la mano con l’opposizione parlamentare. E stavolta il PD ha dispiegato tutta la sua forza di opposizione, dai gruppi parlamentari ai leader, Franceschini e Bersani alla Camera, Finocchiaro al Senato”.
Tutto bene quel che finisce bene dunque? Mica tanto. Oramai il destino del ddl Gelmini è legato a quello del governo, che non è buona cosa in quanto la sua eventuale (non) approvazione viene condizionata da un quadro più ampio e confuso, piuttosto che essere legato ad una seria discussione dei suoi contenuti (mai avvenuta finora con il Governo o con i suoi supporters, a parte le ridicole messe in scena nei salotti televisivi). Inoltre, da una parte del PD cominciano ad arrivare dei segnali piuttosto inquietanti ed ambigui, in controtendenza con i fatti finora dimostrati.
In particolare, Michele Salvati, considerato “da alcuni come il teorico del nascente Partito Democratico”, nonché presidente del comitato scientifico della fondazione Democratica scuola di politica, il cui presidente è Walter Veltroni, ha scritto un editoriale sul Corriere della Sera il cui punto chiave è “…come mai sono convinto che, tutto considerato, sia (il ddl Gelmini, ndr) da approvare anche al Senato ? Perché le scelte reali in politica si fanno spesso tra il peggio ed il meno peggio. E questa legge contiene sufficienti spunti innovativi e in una giusta direzione di premio al merito, per migliorare la situazione esistente: in parte li ha già segnalati Giavazzi sul Corriere di ieri…”. Dei supposti spunti innovativi segnalati da Giavazzi ne abbiamo già parlato: vuote e false dichiarazioni su cui non c’è da aggiungere altro. Salvati di suo non aggiunge altri punti specifici, a parte notare che la riforma sia un “mostro di norme” (e fin qui ci siamo) per poi addentrarsi in qualche vuota considerazione sul fatto che s’introdurrebbero la valutazione ed il merito. Il punto è che sulla valutazione delle chiacchiere da bar tutti, ma proprio tutti, sono d’accordo. A parte il fatto che non è chiaro come si faccia a prendere sul serio la parola valutazione in bocca al Ministro Gemini, ricordiamo che non basta scrivere la parola valutazione per applicarla davvero nella realtà. Non basteranno tre anni per mettere in funzione l’agenzia di valutazione (ANVUR) che la legge prevede in maniera piuttosto vaga ed a cui delega la valutazione: non è affatto chiaro cosa sarà e su quali criteri valuterà e quali saranno i premi e quali le punizioni (vogliamo parlare della RAE inglese, per caso?). Rimanendo con i piedi per terra, non si capisce il motivo (o lo si capisce perfettamente) per il quale la ministra paladina della meritocrazia (!), non abbia continuato il vecchio monitoraggio (CIVR) almeno per avere un quadro della situazione attuale. Insomma le dichiarazioni devono essere normalizzate sui fatti e non sulle (buone) intenzioni di cui, come sappiamo, è lastricato il pavimento dell’inferno. In base a queste analisi, prive di sostanza, Salvati audacemente conclude: “Ragion per cui: teniamoci la Gelmini. Anzi ripartiamo dalla Gelmini in direzione di una vera autonomia delle università”.
Questa è l’essenza del ragionamento alla base di tutte le terribili sconfitte degli ultimi venti anni del centro sinistra. La sorda politica del meno peggio, che ha sempre messo in un angolo la realtà, ha generato disastri immani a cui ci vorranno decenni per porre rimedio. Una politica che ha perso la bussola della realtà, che non la conosce se non come riflesso di un ricordo offuscato e distorto di qualche decennio fa, che vede qualsiasi sprazzo vitale che viene da “fuori” come una minaccia. Una politica auto-referenziale basata su slogan vuoti, residui ormai archeologici di un recente passato. Cosa deve succedere ancora perché ci si renda definitivamente conto che questa è una politica fallimentare, che ha generato solo sconfitte e umiliazioni? Se c’è una speranza in questo Paese, questa è rappresentata anche (ma non solo) da quei tanti che stanno protestando in questo momento, che si arrampicano sui tetti cercando di reggersi forte, che dormono sotto la pioggia autunnale, che sono diventati esperti di legislazione venendo dal maneggiar provette e protoni, matite e carte geografiche, che sanno insegnare ma hanno capito che se non appari in TV non esisti, che si oppongono ad una riforma fatta da vecchi per vecchi, ma sono convinti che il sistema sia da riformare radicalmente. Che non stanno giocando a fare i piccoli rivoluzionari. Che non stanno inscenando una meschina rivendicazione di categoria per aver un avanzamento di carriera. Gente che ha dignità, che pensa con una certa prospettiva, che conosce i problemi reali ed attuali, che riflette sulle soluzioni, che è pronta a discutere con qualsiasi interlocutore, finanche conimprobabili futuristi sui tetti di Roma. Ci rifletta il giovane rivoluzionario che fu, cercando di aprire gli occhi sulla realtà Italia anno 2010 e lasci stare il comodo megafono usato stando seduto nel suo comodo divanetto.
Continua Salvati: “Il riformismo ed il dialogo bipartisan sono deboli ovunque in democrazia, e da noi in particolare perché incontrano due nemici poderosi: gli interessi dei conservatori e gli schieramenti ideologici”. Ma di che cosa si stia parlando non si capisce affatto. Quale dialogobipartisan e con chi, se interi pezzi del mondo universitario non sono mai stati ascoltati? Chi sono i conservatori, chi ha schieramenti ideologici? Chi più della conferenza dei Rettori può rappresentare meglio i conservatori dell’accademia, e chi più della conferenza dei rettori ha appoggiato entusiasticamente questa riforma? Chi più di chi scrive che “il sistema universitario e della ricerca in Italia non sono riformabili… Illudendosi che sia possibile migliorare l’esistente in realtà si fa il gioco dei conservatori, cioè di coloro che sono responsabili del disastro in cui ci troviamo…” è schierato ideologicamente, e chi più del prof. Giavazzi, autore del brano, ha sempre sostenuto l’approvazione del ddl Gelmini ? Ma una volta che sia una, sarà mai possibile fare un ragionamento preciso sui costi, vantaggi, limiti e risultati? Pare proprio di no, ma d’altronde per parlare dell’argomento bisognerebbe conoscerlo, bisognerebbe capire quali sono i problemi dell’università italiana nell’anno 2010 e quali sono le prospettive future delle generazioni più giovani. E a questo punto ci troviamo di fronte al vuoto spinto dei nostri ex-rivoluzionari in panciolle.
Siamo comunque abituati alle mistificazioni del ministro Gelmini come “i ricercatori fanno il gioco dei baroni” (quando invece ai “baroni” è affidato il reclutamento ed i ricercatori ne sono invece esclusi), ma è sorprendente (relativamente parlando) che proprio gli intellettuali ed accademici vicini al PD, che dovrebbero contribuire alla discussione nel merito, preferiscono invece giudicare una riforma sulla base di astratte e inconcludenti categorie (riformatori vs conservatori). E’ ovviamente giusto dissentire dalle opinioni della propria area politica (gli intellettuali servono proprio a questo) ma sarebbe meglio farlo sulla base dei contenuti delle proposte e dei loro effetti sul sistema universitario e non con insulsi slogan. Soprattutto, quando non si è più in grado di comprendere la realtà sarebbe bene esimersi dal commentarla. Noi speriamo che il Partito Democratico prenda prontamente le distanze da uno dei suoi più visibili esponenti intellettuali per non ricadere nell’ambiguità che lo ha contraddistinto nel recente passato; il rifiuto di queste posizioni sarà il segnale di un vero rinnovamento della sua politica.
(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano online)
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mercoledì 1 dicembre 2010
L’ideologia e i suoi difensori
Ho già avuto modo di discutere le gesta del prof. Giavazzi, “economista” nostrano, e del suo feroce fanatismo intellettuale, conosciuto infatti per averci spiegato che “il sistema universitario e della ricerca in Italia non sono riformabili… Illudendosi che sia possibile migliorare l’esistente in realtà si fa il gioco dei conservatori, cioè di coloro che sono responsabili del disastro in cui ci troviamo…”. L’unica soluzione diviene dunque quella di distruggere il sistema. Ringraziamo il prof. Giavazzi per la citazione, ma tale posizione ricorda molto (troppo) quella che il nostro paese ha già conosciuto in un recente passato, figlia di un pensiero massimalista tanto squilibrato quantopericoloso. Nel giorno della sua approvazione, per rettilinea coerenza, il prof. Giavazzi ci delizia con un dotto editoriale in difesa del ddl Gelmini, che viene presentato come la migliore riformapossibile in accordo sia con quel mondo politico che dell’università ha una conoscenza piuttosto approssimativa e sicuramente del tutto settoriale (o piuttosto, a cui non importa nulla), sia con unimprobabile gruppo di sedicenti docenti universitari della Fondazione Magna Carta, il cui presidente è tal Gaetano Quagliariello (forse un omonimo del senatore Pdl? Chissà!).
L’incipit della difesa giavazziana è una frase ritagliata da uno scritto di Luigi Einaudi “Del valore dei laureati unico giudice è il cliente:…”; sarebbe interessante conoscere quale sia il cliente, per esempio, di un fisico teorico, di un matematico, di un filologo, di un sociologo o di uno storico. Probabilmente lo scritto di Einaudi, esautorato dal suo contesto originario, assume un significato diverso da quello che il suo autore gli voleva impartire. Infatti, la citazione continua con “…questi (il cliente, ndr) sia libero di rivolgersi, se a lui così piaccia, al geometra invece che all’ingegnere, e libero di fare meno di ambedue se i loro servigi non gli paiano di valore uguale alle tariffe scritte in decreti che creano solo monopoli e privilegi”. Come è noto Einaudi in tale scritto si riferiva a tutt’altro problema, ovvero alla questione del valore legale del titolo di studio in particolare nelmondo delle professioni, il cui esercizio è subordinato all’iscrizione in un albo. La citazione è dunque fuori luogo sia per il contesto in cui essa era stata utilizzata sia perché in ogni caso non si può in nessun modo assimilare la ricerca di base, scientifica o umanistica, all’esercizio delle attività professionali. Come si può assimilare il lavoro del fisico teorico a quello del geometra e dell’ingegnere ?
Ovviamente si tratta di attività diverse e bisogna avere una visione dell’istruzione e della ricercamicroscopicamente limitata e pesantemente schiacciata da un’ideologia aberrante per estendere questa considerazione all’università nella sua complessità ed eterogeneità di compiti, insegnamenti e ricerca. Ma, come ho già avuto modo di notare, sono proprio queste idee ottocentesche che abitano nella testa di chi intende riformare il sistema universitario italiano nel 2010. E dunque di chi difende e avalla lo sciagurato ddl Gelmini.
Questo inizio è utilizzato dal nostro eroe per bacchettare la riforma Gelmini poiché non permette di aumentare a piacimento le tasse universitarie e non abolisce il valore legale del titolo di studio (altre manie bocconiane, come ci insegnerebbe il prof. Perotti). Certo, la riforma perfetta sarebbe stata quella di radere al suolo il sistema universitario pubblico, ma in assenza di questa possibilità, contentiamoci di una legge che paralizza le università per i prossimi anni, le ridimensiona sensibilmente e umilia quel corpo docente fatto solo di perversi baroni e dei loro servi della gleba, i ricercatori. Tanto l’eccellenza nel sistema pubblico non c’è. Si conclude questa introduzione – presa di distanza fittizia - con: “Il ministro Gelmini non ha il coraggio di Luigi Einaudi”. Probabilmente non è l’unica qualità d’Einaudi che la nostra ministra non ha.
Nella lista dei presunti meriti del ddl Gelmini, secondo il prof. Giavazzi, ci sono una serie di affermazioni che distorcono la realtà, in quanto false. Vediamone qualcuna. “Il risultato, nonostante tutto, non è poca cosa. La legge abolisce i concorsi, prima fonte di corruzione delle nostre università”. Forse il prof. Giavazzi intende dire che con il taglio del 20% effettuato nel 2008 al finanziamento universitario le risorse per nuovi posti non ci saranno più e dunque niente più concorsi. Perché, altrimenti non c’è nessuna traccia d’abolizione di concorsi nel ddl Gelmini!
“Crea una nuova figura di giovani docenti «in prova per sei anni», e confermati professori solo se in quegli anni raggiungano risultati positivi nell’insegnamento e nella ricerca. Chi grida allo scandalo sostenendo che questo significa accentuare la «precarizzazione» dell’università dimostra di non conoscere come funzionano le università nel resto del mondo”. E quali sarebbero le università del mondo in cui non si assicura all’origine la copertura finanziaria di una tenure-track(sottoposta a valutazione, ovviamente)? Una bugia ripetuta mille volte non diventanecessariamente verità, soprattutto per coloro che la dovranno sperimentare sulla propria pelle. Ma certo che può diventare realtà virtuale per un’opinione pubblica distratta e offuscata da un’incalzantepropaganda di disinformazione.
Prosegue il Nostro: “«Non si fanno le nozze con i fichi secchi», è la critica più diffusa. Nel 2007-08 il finanziamento dello Stato alle università era di 7 miliardi l’anno. Il ministro dell’Economia lo aveva ridotto, per il 2011, di un miliardo. Poi, di fronte alla mobilitazione di studenti, ricercatori, opinione pubblica e alle proteste del ministro Gelmini, Tremonti ha dovuto fare un passo indietro: i fondi sono 7,2 miliardi nel 2010, 6,9 nel 2011, gli stessi di tre anni fa”.
Addirittura le proteste del ministro Gelmini? Ci erano proprio sfuggite. Comunque, fin quando le prossime finanziarie non verranno approvate, questi sono numeri a casaccio. E, come notato dal direttore de “Le Scienze” Marco Cattaneo: “In realtà, come tutte le riforme che praticano la politica dei tagli lineari – ah, se solo il presidente della Camera fosse coerente con i suoi proclami – anche la riforma Gelmini penalizzerà la parte sana dell’Università italiana e lascerà indenne quella malata”.
Inoltre aggiunge il prof. Giavazzi: “La legge innova la governance delle università: limita l’autoreferenzialità dei professori prevedendo la presenza di non accademici nei consigli di amministrazione (seppure il ministro non abbia avuto la forza di accentuare la «terzietà» del cda impedendo che il rettore presieda, al tempo stesso, l’ateneo e il suo cda)”. Abbiamo già visto quali siano gli effetti dei “non accademici” nei consigli di amministrazione delle università e a quali risultati di eccellenza questi conducano come nel caso della LUISS e dell’IIT, grazie. Prosegue: “Per la prima volta prevede che i fondi pubblici alle università siano modulati in funzione dei risultati. La valutazione è l’unico modo per non sprecare risorse, per consentirci di risalire nelle graduatorie mondiali e fornire agli studenti un’istruzione migliore”. La legge, però, prevede solo deleghe (chi le farà?) in tema di valutazione (l’ANVUR è una scatola vuota da parecchi anni e tale è rimasta sottol’epocale ministero Gelmini).
Infine: “Davvero Bersani pensa che se vincesse le elezioni riuscirebbe a far approvare una legge migliore? Migliore forse per chi nell’università ha avuto la fortuna di riuscire a entrare. Dubito per chi ne è fuori nonostante spesso nella ricerca abbia ottenuto risultati più significativi di chi è dentro”. A prescindere da Bersani (sic), una riforma sensata dell’università si potrà fare solo a condizione di svolgere uno studio approfondito sullo stato attuale dell’università italiana confrontandolo con quanto avviene in paesi europei, che conoscono sistemi vicini al nostro, e individuando un modello di riferimento realistico (quello della Francia ad esempio). Soprattutto si potrà fare quando si ascolterà anche la voce di coloro che nell’università ci sono appena entrati e ne rappresentano la parte più innovativa e dinamica, come la voce di coloro che ancora non hanno avuto la possibilità di essere assunti o semplicemente di fare un concorso degno di questo nome. Certamente non si farà una riforma sensata seguendo le elucubrazioni di un economista passatista ottenebrato da un’ideologia di riporto. E chi ci prova ora, ne pagherà, prima o poi, le conseguenze politiche, culturali ed intellettuali.
Segnalazioni
I pensieri di una ricercatrice sui tetti dell’università di Roma: Francesca Coin alla trasmissione Via con me
Lettera aperta ai Rettori, ai Presidi di Facoltà, ai Direttori di Dipartimento e ai Presidenti di Consiglio di Corso di Studio delle Università Statali Italiane
Ricercatori e professori non disponibili a distruggere l’università pubblica
L’incipit della difesa giavazziana è una frase ritagliata da uno scritto di Luigi Einaudi “Del valore dei laureati unico giudice è il cliente:…”; sarebbe interessante conoscere quale sia il cliente, per esempio, di un fisico teorico, di un matematico, di un filologo, di un sociologo o di uno storico. Probabilmente lo scritto di Einaudi, esautorato dal suo contesto originario, assume un significato diverso da quello che il suo autore gli voleva impartire. Infatti, la citazione continua con “…questi (il cliente, ndr) sia libero di rivolgersi, se a lui così piaccia, al geometra invece che all’ingegnere, e libero di fare meno di ambedue se i loro servigi non gli paiano di valore uguale alle tariffe scritte in decreti che creano solo monopoli e privilegi”. Come è noto Einaudi in tale scritto si riferiva a tutt’altro problema, ovvero alla questione del valore legale del titolo di studio in particolare nelmondo delle professioni, il cui esercizio è subordinato all’iscrizione in un albo. La citazione è dunque fuori luogo sia per il contesto in cui essa era stata utilizzata sia perché in ogni caso non si può in nessun modo assimilare la ricerca di base, scientifica o umanistica, all’esercizio delle attività professionali. Come si può assimilare il lavoro del fisico teorico a quello del geometra e dell’ingegnere ?
Ovviamente si tratta di attività diverse e bisogna avere una visione dell’istruzione e della ricercamicroscopicamente limitata e pesantemente schiacciata da un’ideologia aberrante per estendere questa considerazione all’università nella sua complessità ed eterogeneità di compiti, insegnamenti e ricerca. Ma, come ho già avuto modo di notare, sono proprio queste idee ottocentesche che abitano nella testa di chi intende riformare il sistema universitario italiano nel 2010. E dunque di chi difende e avalla lo sciagurato ddl Gelmini.
Questo inizio è utilizzato dal nostro eroe per bacchettare la riforma Gelmini poiché non permette di aumentare a piacimento le tasse universitarie e non abolisce il valore legale del titolo di studio (altre manie bocconiane, come ci insegnerebbe il prof. Perotti). Certo, la riforma perfetta sarebbe stata quella di radere al suolo il sistema universitario pubblico, ma in assenza di questa possibilità, contentiamoci di una legge che paralizza le università per i prossimi anni, le ridimensiona sensibilmente e umilia quel corpo docente fatto solo di perversi baroni e dei loro servi della gleba, i ricercatori. Tanto l’eccellenza nel sistema pubblico non c’è. Si conclude questa introduzione – presa di distanza fittizia - con: “Il ministro Gelmini non ha il coraggio di Luigi Einaudi”. Probabilmente non è l’unica qualità d’Einaudi che la nostra ministra non ha.
Nella lista dei presunti meriti del ddl Gelmini, secondo il prof. Giavazzi, ci sono una serie di affermazioni che distorcono la realtà, in quanto false. Vediamone qualcuna. “Il risultato, nonostante tutto, non è poca cosa. La legge abolisce i concorsi, prima fonte di corruzione delle nostre università”. Forse il prof. Giavazzi intende dire che con il taglio del 20% effettuato nel 2008 al finanziamento universitario le risorse per nuovi posti non ci saranno più e dunque niente più concorsi. Perché, altrimenti non c’è nessuna traccia d’abolizione di concorsi nel ddl Gelmini!
“Crea una nuova figura di giovani docenti «in prova per sei anni», e confermati professori solo se in quegli anni raggiungano risultati positivi nell’insegnamento e nella ricerca. Chi grida allo scandalo sostenendo che questo significa accentuare la «precarizzazione» dell’università dimostra di non conoscere come funzionano le università nel resto del mondo”. E quali sarebbero le università del mondo in cui non si assicura all’origine la copertura finanziaria di una tenure-track(sottoposta a valutazione, ovviamente)? Una bugia ripetuta mille volte non diventanecessariamente verità, soprattutto per coloro che la dovranno sperimentare sulla propria pelle. Ma certo che può diventare realtà virtuale per un’opinione pubblica distratta e offuscata da un’incalzantepropaganda di disinformazione.
Prosegue il Nostro: “«Non si fanno le nozze con i fichi secchi», è la critica più diffusa. Nel 2007-08 il finanziamento dello Stato alle università era di 7 miliardi l’anno. Il ministro dell’Economia lo aveva ridotto, per il 2011, di un miliardo. Poi, di fronte alla mobilitazione di studenti, ricercatori, opinione pubblica e alle proteste del ministro Gelmini, Tremonti ha dovuto fare un passo indietro: i fondi sono 7,2 miliardi nel 2010, 6,9 nel 2011, gli stessi di tre anni fa”.
Addirittura le proteste del ministro Gelmini? Ci erano proprio sfuggite. Comunque, fin quando le prossime finanziarie non verranno approvate, questi sono numeri a casaccio. E, come notato dal direttore de “Le Scienze” Marco Cattaneo: “In realtà, come tutte le riforme che praticano la politica dei tagli lineari – ah, se solo il presidente della Camera fosse coerente con i suoi proclami – anche la riforma Gelmini penalizzerà la parte sana dell’Università italiana e lascerà indenne quella malata”.
Inoltre aggiunge il prof. Giavazzi: “La legge innova la governance delle università: limita l’autoreferenzialità dei professori prevedendo la presenza di non accademici nei consigli di amministrazione (seppure il ministro non abbia avuto la forza di accentuare la «terzietà» del cda impedendo che il rettore presieda, al tempo stesso, l’ateneo e il suo cda)”. Abbiamo già visto quali siano gli effetti dei “non accademici” nei consigli di amministrazione delle università e a quali risultati di eccellenza questi conducano come nel caso della LUISS e dell’IIT, grazie. Prosegue: “Per la prima volta prevede che i fondi pubblici alle università siano modulati in funzione dei risultati. La valutazione è l’unico modo per non sprecare risorse, per consentirci di risalire nelle graduatorie mondiali e fornire agli studenti un’istruzione migliore”. La legge, però, prevede solo deleghe (chi le farà?) in tema di valutazione (l’ANVUR è una scatola vuota da parecchi anni e tale è rimasta sottol’epocale ministero Gelmini).
Infine: “Davvero Bersani pensa che se vincesse le elezioni riuscirebbe a far approvare una legge migliore? Migliore forse per chi nell’università ha avuto la fortuna di riuscire a entrare. Dubito per chi ne è fuori nonostante spesso nella ricerca abbia ottenuto risultati più significativi di chi è dentro”. A prescindere da Bersani (sic), una riforma sensata dell’università si potrà fare solo a condizione di svolgere uno studio approfondito sullo stato attuale dell’università italiana confrontandolo con quanto avviene in paesi europei, che conoscono sistemi vicini al nostro, e individuando un modello di riferimento realistico (quello della Francia ad esempio). Soprattutto si potrà fare quando si ascolterà anche la voce di coloro che nell’università ci sono appena entrati e ne rappresentano la parte più innovativa e dinamica, come la voce di coloro che ancora non hanno avuto la possibilità di essere assunti o semplicemente di fare un concorso degno di questo nome. Certamente non si farà una riforma sensata seguendo le elucubrazioni di un economista passatista ottenebrato da un’ideologia di riporto. E chi ci prova ora, ne pagherà, prima o poi, le conseguenze politiche, culturali ed intellettuali.
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