"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.
lunedì 19 aprile 2010
Salari in Italia ed all'estero
Estratto dal libro "I ricercatori non crescono sugli alberi"
"È noto che un ricercatore in Italia, all’ingresso, percepisce una retribuzione netta di circa 1.500 euro al mese (contro i quasi 2.000 di Francia e Spagna e i 2.500 del Regno Unito), mentre un professore ordinario a fine carriera ha una retribuzione del tutto comparabile agli stipendi dei professori delle università americane (dell’ordine di 100.000 euro lordi all’anno). A questo riguardo è importante notare che, mentre negli Stati Uniti lo stipendio di un professore è correlato al merito accademico, in Italia ciò dipende, all’interno di ogni fascia, solo dall’anzianità di servizio. Quindi, contrariamente agli Stati Uniti, la fascia di professori universitari d’età avanzata coincide con la fascia maggiormente retribuita. Questo fatto può essere dimostrato in maniera quantitativa calcolando la retribuzione media percepita dai docenti di una certa età. Come ci si poteva aspettare, osserviamo una semplice relazione lineare tra età e retribuzione, caratterizzabile quindi da due quantità, determinate dalla politica salariale, che sono lo stipendio di entrata e la differenza tra retribuzione minima e massima.
Dunque, in media, a 30 anni si guadagnano 20.000 euro l’anno, a 50 anni 60.000 ed a 70 se ne guadagnavano 80.000 nel 2002 e quasi 95.000 nel 2004. Questa disparità sembra paradossale, considerando che le necessità economiche di un settantenne sono senz’altro inferiori rispetto a quelle di un trentenne, che magari deve mantenere dei figli piccoli. Analizzando i dati delle retribuzioni dei docenti per vari anni accademici (1998-2004) è possibile osservare come la differenza tra la retribuzione minima e quella massima sia rimasta sostanzialmente invariata negli anni, mentre lo stipendio d’ingresso di un giovane ricercatore è cresciuto di poco. Un aumento che compensa in parte l’inflazione ma certamente non in maniera adeguata da poter confrontare tale stipendio con quello percepito in un altro paese europeo e dunque tale da rendere competitivo il nostro sistema universitario. Possiamo quindi concludere che la tendenza delle variazioni delle retribuzioni negli anni 1998-2004 non è andata nella direzione di una ripartizione più equa delle risorse tra giovani ed anziani."
In questo articolo de Il Messaggero del 19.4.2010, dall'analisi dei dati OCSE, si giunge ad una analoga conclusione: "un ricercatore italiano con un'esperienza lavorativa tra 0 e 4 anni guadagna circa 12,500 euro l'anno contro i 30,500 del collega francese ed i circa 24,000 di quello tedesco. In Spagna si arriva comunque vicino a 17,000: per trovare compensi più bassi bisogna guardare ai Paesi dell'Est." Inoltre si mette in evidenza che i salari di ingresso siano oggi più bassi di quelli delle generazioni precedenti. Ma infatti non è molto più appassionante discutere della riforma della governance universitaria o di come debbano essere costituite le commissioni di concorso ?
Etichette:
commenti,
ricercatori,
salari
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Non va sottovalutato, però, il ruolo avuto dallo Zeitgeist che ci avvolge, soprattutto dal punto di vista della teoria economica. Ogni volta che l'opinione pubblica dimentica una crisi, subito i maghi della politica economica tornano a recitare mantra come "riduzione della spesa pubblica, supply side economics, riduzione delle tasse sulle imprese, riduzione del debito pubblico" e così via. È evidente che i policy-maker hanno altre priorità rispetto al bene comune, così non potete aspettarvi che ragionino nei termini seguenti: "ogni soldo speso in ricerca non andrebbe considerato come spesa corrente, ma come un investimento". Noi sappiamo che è così, perché un paese che non spende in ricerca potrà forse competere nel breve periodo e in qualche settore di nicchia, ma nel lungo periodo dovrà necessariamente segnare il passo. Se si continua a cercare di aumentare la produttività del lavoro solo riducendone i costi, invece di accrescerla dal punto di vista fisico (leggi: facendo ricerca); finché la spesa pubblica (ivi compresa la ricerca) verrà vista come una palla al piede, piuttosto che come un'opportunità; finché le innegabili inefficienze del settore statale verranno "corrette" solo attraverso drastiche riduzioni della spesa, piuttosto che tramite riallocazioni e razionalizzazioni, beh, ogni parola spesa sulla ricerca cadrà sempre nel vuoto.
RispondiElimina