Sull'Unità online Pietro Greco ha scritto una recensione al libro
I ricercatori non crescono sugli alberi. E, in ogni caso, in Italia il terreno dove nascono gli alberi della ricerca è sempre più arido. Qualcuno sta drenando via l’acqua residua, in un ambiente che non è mai stato particolarmente umido.
Il messaggio che Francesco Sylos Labini, fisico in forze all’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR, e Stefano Zapperi, fisico e ricercatore presso il CNR di Modena, hanno affidato a un libro denso di numeri e di idee appena uscito con l’editore Laterza (I ricercatori non crescono sugli alberi; Laterza; pp. 118; euro 12,00) non è certo nuovo. Molti (anche se non moltissimi) hanno descritto in tempi recenti la condizione di estrema difficoltà che caratterizza la ricerca scientifica e l’educazione terziaria in Italia. Eppure questo libro spicca sugli altri e merita di essere letto tutto d’un fiato – e poi a lungo meditato – per due motivi.
Primo: la descrizione dell’Italia della ricerca e dell’alta educazione è documentata ed equilibrata come poche. Ricca di numeri, appunto. Ma soprattutto di chiavi interpretative. Che ci restituisce tutta la complessità di un settore che, nel suo declino, segna il declino del paese.
I mali strutturali della ricerca e dell’università emergono in maniera chiara: mancanza di risorse economiche e progressivo invecchiamento delle risorse umane. C’era da aspettarselo, d’altronde. Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi hanno descritto prima e meglio di altri l’anomalo aumento dell’età media dei nostri ricercatori. Per intenderci: in Italia solo il 2% dei docenti universitari ha meno di 30 anni, contro il 15% della Germania o il 13% della Gran Bretagna. Al contrario, i docenti con oltre 50 anni in Italia sono il 56% del totale, contro il 31% della Germania o il 16% della Gran Bretagna. A questi mali strutturali occorre aggiungere quelli culturali: da un lato, le baronie e il nepotismo; dall’altro, l’assoluta incapacità di attrarre ricercatori e docenti stranieri.
Secondo: dopo l’attenta diagnosi il libro prende una posizione netta e precisa sulla terapia. È possibile ed è necessaria una riforma organica del sistema di ricerca e dell’alta educazione nel nostro paese. Che si ponga sia il problema di una maggiore quantità di risorse (finanziarie e umane) sia il problema di una loro più razionale e giusta distribuzione. Ma sia il sistema di ricerca sia il sistema di alta formazione devono restare pubblici. Non vanno ascoltate le sirene neoliberiste che vorrebbero privatizzare l’università e subordinare alle (presunte) necessità delle imprese il sistema di ricerca.
L’opzione pubblica è l’unica in campo. Non per motivi ideologici. Ma per motivi di fatto. In nessun paese, mai le imprese private seguendo le regole del mercato hanno creato un sistema di ricerca solido e una sistema di alta formazione valido. E il motivo è molto semplice: perché si tratta di investimenti di lungo termine con effetti imprevedibili. In tutti i paesi avanzati – compresi gli Stati Uniti – è lo stato che crea e finanzia la ricerca scientifica e la gran parte dell’alta formazione. Perché è l’unico che ha le risorse ed è l’unico che ha la pazienza.
Ecco, dunque, la ricetta. Tapparsi l orecchie e lasciare cantare a vuoto le sirene neoliberiste. Lavorare perché anche lo stato italiano faccia come la gran parte degli stati europei, del Nord America e dei paesi emergenti: inizi a considerare la spesa in ricerca e sviluppo e nell’alta educazione non come una spesa, ma come un investimento strategico.
Ciò è tanto più vero, aggiungiamo noi, in un paese in cui il sistema produttivo – unico in tutto il mondo cosiddetto avanzato – non solo ha scelto un «modello di sviluppo senza ricerca e senza alta formazione», ma non ha neppure piena cognizione che è a causa di questa scelta che oggi ha difficoltà a reggere il passo degli altri.