"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




giovedì 23 giugno 2011

Valutazione e potere nella ricerca


Il 5 novembre del 2008 la regina d’Inghilterra visitò la prestigiosa London School of Economics e durante la cerimonia fece una domanda passata alla storia come la domanda della regina”. Ci sono delle versioni discordanti sulle parole esatte che ha utilizzato, ma il senso è questo: “Come mai la maggioranza degli economisti non ha previsto la crisi finanziaria del 2008?” Ricordiamo, infatti, che il fallimento della Lehman Brothers nel settembre del 2008 ha dato origine alla più grande crisi finanziaria dal 1929 e alla recessione di tanti paesi che ancora dura, e che economisti di fama mondiale non sono stati capaci né di prevedere la crisi né  di interpretare quello che stava avvenendo. Pochi mesi dopo, nel dicembre 2008, vennero resi pubblici i risultati della Research Assessment Exercise (il modello della nostra Anvur), ovvero della valutazione dell’università e della ricerca inglesi in cui i diversi dipartimenti delle varie discipline sono stati classificati con un voto da 0 a 4.  Facendo una classifica delle diverse discipline (fisica, chimica, storia, ecc.) il risultato è stato  che“tra tutte le discipline considerate l’economia e l’econometria sono i  campi in cui il punteggio è massimo”.

Dunque mentre la “domanda della regina” è stata la cartina di tornasole per mostrare  che c’è un problema fondamentale nell’attuale ricerca economica, il risultato della valutazione per le discipline economiche non è stato solo buono, ma il migliore di tutte in Inghilterra. La domanda che si poneDonald Gillies, filosofo della scienza e studioso dei sistemi di valutazione della ricerca, è la seguente: Com’è possibile che una valutazione così errata sia potuta accadere?” E’ chiaro che ci sia un problema fondamentale con l’attuale corso della disciplina economica se la più grande crisi globale mai avvenuta dal 1929 è esplosa lasciando la maggior parte degli economisti sorpresi. La sua interpretazione, che trovo molto convincente, si sviluppa come segue.

Thomas Kuhn nel suo magistrale La struttura delle rivoluzioni scientifiche ha sviluppato una visione della scienze naturali che è diventata molto nota e ampiamente accettata.  Secondo Kuhn, le scienze naturali mature si sviluppano per la maggior parte nel modo che egli descrive come “scienza normale”. Durante il periodo di scienza normale, tutti i ricercatori che lavorano nel campo accettano la stessa struttura d’assunzioni, che Kuhn chiama “paradigma”. Tuttavia, questi periodi di scienza normale sono, di volta in volta, interrotti da rivoluzioni scientifiche in cui è rovesciato il paradigma dominante del campo e sostituito da un nuovo paradigma. La differenza fondamentale tra le scienze naturali e le scienze sociali è generalmente che nelle scienze naturali, fuori dei periodi rivoluzionari, tutti gli scienziati accettano lo stesso paradigma, mentre nelle scienze sociali  i ricercatori si dividono in scuole concorrenti. Ogni scuola ha il suo paradigma, ma questi paradigmi sono spesso molto diversi l’uno dall’altro. Il contrasto è dunque tra una situazione con un paradigma singolo e unamulti-paradigma.

Ad esempio, tutti i fisici teorici accettano il paradigma il cui nucleo è costituito dalla teoria della relatività e dalla meccanica quantistica. Questo non significa che i fisici teorici contemporanei sono eccessivamente dogmatici: piuttosto pensano che, in qualche momento nel futuro, ci sarà un’altra rivoluzione nel campo, originata da qualche nuova scoperta sperimentale, che sostituirà la relatività e la meccanica quantistica con alcune nuove, e forse ancora più strane, teorie. Tuttavia, essi sostengono, la relatività e la meccanica quantistica funzionano molto bene, nel senso che spiegano i fenomeni naturali, e quindi è ragionevole accettarle per il momento.

Se guardiamo all’economia troviamo una situazione molto diversa: la comunità è, infatti, divisa in diverse scuole. I membri di  ciascuna di queste scuole condividono lo stesso paradigma, ma il paradigma di una scuola può essere molto diverso da quello di un altro. Inoltre, i membri di una scuola sono spesso molto critici verso i membri di un’altra scuola. Le diverse scuole, che per semplicità possiamo identificare in quella neoclassica, che ha il numero più elevato d’aderenti al momento, nelle varie versioni del keynesismo e nella scuola marxista, sono associate a ideologie politiche: in particolare queste scuole sono disposte su uno spettro politico che va dalla destra alla sinistra.

Dunque, secondo Gillies, l’esame della comunità dei ricercatori in economia ha portato alla seguente immagine: questa comunità è divisa in una serie di diverse scuole di pensiero A, B, C…, ognuna con il proprio paradigma. I membri d’ogni scuola hanno una pessima opinione del lavoro di ricerca prodotto da altre scuole. Ora, se un sistema di valutazione della ricerc è applicato a questo tipo di comunità, quale risultato darà? La tesi di Gillies, che deriva dallo studio di quello che è avvenuto in Inghilterra negli ultimi venti anni in cui è stata attivata la valutazione tramite Rae, è che i lavori di ricerca dei membri di qualsiasi scuola che abbia il maggior numero di iscritti riceveranno lamassima valutazione. Nel caso specifico, la scuola dominate è quella dei neoclassici.

Essere consapevoli di questo tipo di dinamiche sociali, quando si parla di valutazione, è a mio avviso fondamentale: questa è infatti una delle chiavi per  poter capire il peso e il significato che si danno ai prodotti della ricerca (articoli scientifici) e ai parametri bibliometrici che ne misurano l’impatto. Non è forse un caso che in Italia, proprio nella discussione della valutazione della ricerca in economia, è avvenuta, nel caso del Civr, una spaccatura tra le diverse scuole di pensiero: il disaccordo è stato sul significato dei diversi strumenti  della valutazione e ne è seguita una lettera aperta sulla valutazione in economia da parte di un gruppo di economisti (non neoclassici) a testimonianza del fatto che il dibattito è ancora aperto e lungi dall’essere risolto. Nel caso dell’economia, oltre a delle implicazioni puramente accademiche, pur importanti, come il fatto che i posti vengono assegnati soprattutto ai membri della scuola dominante, c’è una implicazione politica fondamentale: quando è il momento di chiedere una consulenza all’“esperto” su un tema specifico, a chi si rivolgerà il politico di turno se non all’accademico? E, nel nostro tempo, quale categoria di accademici è la più ascoltata dai politici?

Discussione sulla proposta di alzare le tasse universitarie sul modello inglese




martedì 21 giugno 2011

Retorica dell'equità per nascondere una proposta iniqua


 [In risposta ad un nuovo articolo di Andrea Ichino, un nuovo commento di FSL]


Ichino continua a girare intorno al punto centrale della sua proposta, che non è rendere più equo il  sistema fiscale e dunque di finanziamento dell’università ma di trasferire il costo dell’università dallo Stato alle famiglie. Per rendere più equo il sistema fiscale è, infatti, solamente necessario differenziare le aliquote ed abbassare quelle dei ceti meno abbienti rispetto a quelle dei ceti più abbienti. 

L’equità del sistema dipende ovviamente dalla distribuzione del reddito, dalle aliquote e dalla distribuzione della provenienza degli studenti in base al reddito. Ovviamente, l’equità non si raggiunge affatto aumentando le tasse universitarie di un fattore 10 rispetto a quelle attuali ed introducendo un sistema forzoso, per le classi meno abbienti, di prestiti (tra l’altro con tassi d’interessi dal 2% al 5%).

L’introduzione del sistema inglese non è volto a rendere più equo l’accesso all’università ma di  trasferire il costo dell’università dalla fiscalità  generale agli studenti ed alle loro famiglie. La  retorica dell’equità sociale nasconde il fatto che questo sistema avrebbe delle implicazioni deleterie,  come ho illustrato, sia per quanto riguarda la  possibilità d’accesso all’università per gli studenti  provenienti dalle famiglie meno abbienti, sia per lo stravolgimento della missione dell’università stessa con pericolose conseguenze per quelle discipline più lontane dal mercato del lavoro e per le università che si trovano nelle zone più depresse del paese.

Ichino continua a non tener conto del fatto che le tasse universitarie sono già differenziate per classi di  reddito. L’entità delle tasse universitarie attuali si  valuta in confronto agli altri paesi OCSE, come ho discusso, e non allo stipendio di un professore  ordinario.


Noto infine che Ichino riconosce che la soluzione di questa questione è puramente politica, mettendo in evidenza la peculiarità di una proposta di destra, che  invoca un minore intervento dello Stato, portata  avanti da parlamentari di un partito di centro sinistra.

venerdì 17 giugno 2011

Tasse universitarie: risposta a Ichino

Il debito pubblico italiano è di quasi 2000 miliardi di euro, l’evasione fiscale è stimata essere di circa 300 miliardi di euro ed il finanziamento all’università, è di circa 7 miliardi di euro. Dunque, il “risparmio” sulla spesa per università e ricerca inciderebbe per una frazione irrilevante sul debito pubblico: mi sembra ovvio che non si parte da qui per risanare le finanze del paese. Il problema, casomai, è cercare di rendere questa spesa più efficiente, oltre che di portarla al livello degli altri paesi europei. La decisione di incrementare la spesa per l’università e la ricerca, o di migliorare la sua qualità, è puramente politica ed ha davvero poco a che fare con il fatto che vi sia un debito pubblico 200 volte più grande. E’ infatti chiaro che i capitoli di spesa su cui incidere potrebbero essere altri soprattutto se s’iniziasse a considerare la spesa per l’università e la ricerca come un investimento per le future generazione, e non come una inutile fonte di spreco di risorse.
Come è noto a qualsiasi studente, e come risulta dal regolamento di qualsiasi università, le tasse universitarie sono proporzionali al reddito (con una saturazione per i redditi più alti): non si capisce perché questo fatto debba essere necessariamente ignorato nell’argomento e nel modello presentati da Ichino. Per fare qualche esempio all’università di Torino ci sono 26 fasce contributive con importi che vanno da 300 a 1500 euro, mentre all’università di Cagliari ci sono 17 fasce contributive con tasse annuali da 180 a 2500 euro. Invece di presentare modelli fondati su ipotesi irrealistiche e numeri inventati, tra l’altro con risultati piuttosto confusi, bisognerebbe analizzare la realtà.
C’è un fatto dato per scontato da Ichino ma che scontato non è. Quale indagine mostrerebbe che i ricchi vanno all’università più dei poveri? Per fare un esempio i laureati del consorzio Alma Laurea (che comprende la maggioranza delle università ed anche la maggioranza dei laureati - 110.000 su 180.000 lauree triennali) “acquisiscono con la laurea un titolo che entra per la prima volta nella famiglia d’origine”. Assumendo che la ricchezza delle famiglie sia proporzionale al grado d’istruzione (anche questa ipotesi da verificare, soprattutto in Italia ed alla luce dell’evasione fiscale) questo dato mostra che non è affatto ovvio affermare che la maggioranza di chi frequenta l'università è ricco (3 ricchi contro 1 povero nell'esempio di Ichino).
Prendo atto che Ichino riconosce che l’università italiana non è gratuita e dunque smentisce quanto scritto nel suo precedente articolo. La rilevanza di affermare che l’università sia gratuita e di scarsa qualità sta proprio nel fornire una base ideologica alla proposta di introdurre un sistema che cambi radicalmente la dinamica del finanziamento, dell’accesso e dell’indipendenza dell’istituzione universitaria: un sistema che funziona abbastanza bene ma che ha criticità diffuse si deve e si può riformare, un sistema completamente corrotto e inefficiente va rifondato dalle fondamenta.
Come paragone internazionale possiamo considerare, ad esempio, la Francia, dove: le tasse universitarie sono minori che in Italia, la percentuale di studenti che usufruiscono di borse di studio è più alta, il diritto allo studio è tutelato grazie anche ad un serio impegno in infrastrutture. Dove, inoltre, l’investimento in università e ricerca è maggiore che in Italia: non si capisce perché nel considerare i confronti internazionali si debba tacere sempre che la spesa nell’istruzione terziaria in Italia è tra le più basse dei paesi OCSE. O forse si assume che abbia ragione Roberto Perotti quando afferma, normalizzando in maniera arbitraria i dati OCSE, che “la spesa italiana per studente equivalente a tempo pieno diventa 16.027 dollari, la più alta del mondo dopo Usa Svizzera e Svezia” ?
Circa la qualità dell’università italiana, di nuovo la denigrazione continua fatta da Ichino e dai suoi colleghinon ha certo giovato ad una serena discussione su come sia possibile migliorare l’esistente. Come illustratonel libro che ho scritto con Stefano Zapperi e in un altro contributo l’uso dell’impact factor per la classificazione in qualità dei paesi, come fatto nell’articolo con citato da Ichino, è del tutto arbitrario e non giustificato. L’H-index è una misura più significativa dell’impatto. Il suo valore globale, o diviso per settori, mostra che l’Italia si colloca settima al mondo. Per capire l’efficienza del sistema è necessario normalizzare questo dato rispetto alle risorse investite nel sistema universitario e della ricerca: da ciò risulta che il sistema italiano è anche ragionevolmente efficiente. Data però l’inefficienza di una parte del sistema, che nessuno mette in dubbio, la caratteristica principale del sistema universitario e della ricerca italiane è la sua eterogeneità. La qualità di tanti gruppi di ricerca italiana, in cui sicuramente molti ricercatori stranieri ambirebbero a entrare, è testimoniata anche dal fatto che tanti giovani studenti che vanno all’estero riescono ad ottenere posizioni permanenti o borse di studio prestigiose come quelle erogate dall’European Research Council.
Per quanto riguarda l’assenza di ricercatori stranieri in Italia, le cause sono molteplici e non è questa la sede per approfondire la questione. Consiglio però di provare a leggere un bando di un concorso, per esempio, del CNR e di confrontarlo con un del CNRS francese, o fare un semplice schema per comprendere quando sono banditi i concorsi in Italia o in Francia (in fase con la rotazione della Terra) e quando sono assegnati i posti, o considerare quanto guadagna un ricercatore appena assunto. Un semplice paragone può mostrare le problematicità del sistema italiano, e il motivo per cui un gran numero di ricercatori italiani sta emigrando in Francia da qualche anno a questa parte. La differenza salariale è solo una parte del problema.
Per quanto riguarda la Bocconi, il mio riferimento era alle classifiche internazionali generaliste, che d’altronde sono quelle sempre citate quando si discute del cattivo posizionamento delle università italiane. Se invece si considerano le classiche scorporate per campi disciplinari si trovano delle sorprese, e il caso più eclatante è sicuramente la ventesima posizione della facoltà di scienze dell’università Sapienza di Roma. D’altro canto la Bocconi si posiziona, nella categoria scienze sociali ed economiche, a metà classifica delle prime cento ma a poca distanza dalla facoltà di economia dell’università di Bologna (a volte anche dietrodi questa): non solo per produzione scientifica ma anche per gli altri parametri che le diverse classifiche usano per misurare la qualità. Se si misura la qualità in base al ranking in queste classifiche, sorge un dubbio: perché pagare dieci volte le tasse universitarie per andare alla Bocconi anziché all’università di Bologna?
La proposta di Ichino non “consiste affatto nel far pagare l'università di più ai ricchi (quelli di oggi subito e quelli di domani in modo differito) e di farla pagare di meno ai poveri”. Quello che succederebbe è di escludere i ceti meno abbienti dall'istruzione universitaria, bloccando così uno dei maggiori veicoli di mobilità sociale e condizionare anche la scelta del corso di studi. Come ho già illustrato, la Costituzione prevede un meccanismo chiaro ed efficace (se lo si adopera bene) per fare pagare ai ricchi i servizi pubblici in modo differenziale: la progressività dell'imposizione. Inoltre: (a) per chi è già ricco, pagare l'università ha un impatto relativamente poco rilevante sul reddito e lo può fare senza indebitarsi. Chi è povero, se riesce a usufruire dell'ascensore sociale, deve pagare interamente (anche se in modo differito) la sua ascesa. Rapportato al reddito (suo e/o della sua famiglia) nel corso della vita l'impatto percentuale è più alto per un meno abbiente che per un più abbiente. Insomma, rimanere o arrivare in fascia alta costa uguale per tutti: peccato però che per chi è già in fascia alta, questo costo sia meglio sopportabile. (b) Ammesso che l'ascensore sociale funzioni, chi è povero deve valutare se gli conviene al netto della restituzione del debito. Potrebbe essere meglio un uovo oggi (lavorare dopo la maturità) piuttosto che una gallina domani (laurea e successiva restituzione del debito). Nel complesso, un disincentivo a conseguire titoli di studio che si ripagano troppo. (c) Rendere più aleatorio il finanziamento di un servizio pubblico è il primo passo per smantellarlo. In particolare, verrebbero messe a rischio le università nelle regioni economicamente svantaggiate dove bisognerebbe invece favorire la crescita del capitale umano. (d) Ci sono ottime ragioni perché scienza e cultura siano libere. Su temi legislativi, etici, nucleare, OGM, salute, effetti delle nuove tecnologie su salute e società, ecc., è bene che ci siano ricercatori liberi. Se prevale l'aspetto economico, i finanziamenti d’aziende energetiche, alimentari, farmaceutiche condizionerebbero in modo pesante la libertà d’insegnamento e d’ opinione.
Inoltre, come ha ben messo in luce Alessandro Figà Talamanca “Se per l’istruzione si deve, prima o poi, pagare, è naturale che vengano incentivate le scelte che offrono maggiori prospettive di guadagni futuri. Se gli studi universitari sono considerati alla stregua di un investimento personale, l’accorto investitore-studente sceglierà quelli potenzialmente più remunerativi. E’ proprio questo che vogliamo? Un tale effetto può essere ritenuto positivo solo da chi ritiene che il valore sociale di un’attività lavorativa sia misurato dal reddito che se ne ricava. In altre parole da chi ritiene che la differenza di reddito tra un consulente finanziario ed un maestro elementare misuri la differenza del valore sociale attribuibile alle loro attività. Ma questa non è tanto o solo una posizione decisamente di destra, ma è piuttosto una posizione ideologica che ignora la realtà. Ignora, ad esempio, che per la professione di maestro elementare, o di fisico teorico, siamo ben lontani da condizioni “di mercato”.”
Infine vorrei far notare che qualche giorno fa, proprio in relazione con le politiche del governo inglese che si vorrebbero adottare in Italia, una risoluzione dell’università di Oxford, votata da 283 professori (5 i contrari), afferma che “l'Università di Oxford non ha alcuna fiducia nelle politiche del Ministro per l'istruzione superiore”.

martedì 7 giugno 2011

Tasse universitarie: fatti, miti e ideologia



La discussione sull’ammontare delle tasse universitarie tocca vari punti politici e strategici di primo piano, dal ruolo dello Stato e dell’intervento pubblico, alla missione stessa dell’università; per questo è necessario che ci sia un dibattito approfondito su questo argomento. Andrea Ichino ha recentemente riportato i punti salienti di un’interrogazione parlamentare (primo firmatario Pietro Ichino - Partito Democratico) in cui si propone di aumentare le tasse universitarie ed introdurre un sistema di prestiti sul modello recentemente adottato in Inghilterra. Secondo i proponenti, le ragioni a favore dell’aumento delle tasse universitarie sono: (i) maggiori tasse implicano maggiore qualità e (ii) maggiori tasse con prestiti d’onore implicano una maggiore giustizia sociale. Prima entrare nell’analisi del merito della proposta è necessario fare chiarezza su alcune delle assunzioni su cui si basa; nelle parole di Ichino: dare ai poveri un'università gratis ma di pessima qualità è una truffa”.




(1) L’università italiana non è gratuita. Nel rapporto dell’OCSE “Education at a Glance 2010” a pagina 244 troviamo un confronto tra le tasse universitarie di diversi paesi. In particolare si nota che “Tra i paesi dell’Europa a 19 per i quali i dati sono disponibili, solo l’Italia, l’Olanda, il Portogallo e l’Inghilterra hanno tasse annuali al di sopra di 1100 dollari per studente a tempo pieno”. Come illustrato in Figura 1, tra le 14 nazioni considerate nel biennio 2006/07, l'Italia si colloca sesta come tasse universitarie, ma ultima come percentuale di studenti beneficiari di contributi per diritto allo studio. Si noti inoltre che il fondo integrativo statale per le borse di studio è recentemente passato da 246 a 76 milioni (-69%, un taglio enorme) equivalente al taglio di 45.000 borse su 150.000 erogate (che già coprivano solo l'82.5% degli aventi diritto). Dunque mentre le rette in Italia sono paragonabili, se non addirittura più alte, a quelle d’altri paesi europei, gli studenti meno abbienti non ricevono un aiuto rilevante a causa delle carenze strutturali di una politica per il diritto allo studio che dovrebbe essere lo strumento per rendere il sistema socialmente più equo, come avviene in altri paesi europei.
Tabella sulle tasse universitarie




(2) L’Università italiana non è di pessima qualità. La ricerca italiana si colloca al settimo posto al mondo per volume totale di citazioni. Anche considerando il volume totale di pubblicazioni o l’H-index globale l’Italia si posiziona sempre tra le prime dieci posizioni. Considerando che l’investimento in ricerca e sviluppo, sia in termini assoluti che come percentuale del PIL, è minore dei paesi che ci precedono (Francia, Inghilterra oltre che Stati Uniti) possiamo concludere che l’efficienza del sistema universitario e della ricerca italiano è discreto (il che non significa che non sia improrogabile intervenire per migliorarlo). Questa situazione è spesso chiamata “paradosso italiano”. D’altra parte, per interpretare correttamente l’informazione contenuta nelle classifiche internazionali degli atenei, spesso citate a dimostrazione della mediocrità del sistema universitario italiano, e per identificare le sue criticità, è necessario: (i) considerare separatamente i diversi indicatori in base ai quali queste sono costruite, (ii) considerare anche le classifiche scorporate in base ai diversi campi disciplinari e (iii) conteggiare degli indicatori globali come ad esempio il numero di atenei di ogni paese inclusi nelle prime 500 posizioni. Uno studio dettagliato si trova nel libro di Marino Regini e collaboratori (Donzelli, 2009) in cui si conclude che “il vero svantaggio delle università italiane non risiede nella qualità della ricerca quanto nella bassa internazionalizzazione dei loro studenti e docenti”.




(i) Tasse più alte equivale a maggiore qualità? Chi scrive è convinto che la qualità di un ateneo non può essere semplicemente misurata dal ranking nelle classifiche internazionali. Tuttavia se seguiamo questa maniera di valutazione, troppo spesso superficialmente usata, troviamo che Italia le università in cui le rette sono più alte, la Bocconi e la Luiss, non compaiono tra le prime 500 posizioni in nessuna classifica internazionale, a differenza di un discreto numero università statali, in cui le rette sono notevolmente più basse. Inoltre, guardando al caso del Regno Unito, nessuno studio dimostra che la qualità dell'insegnamento e della ricerca siano aumentate dal 1998 (anno in cui sono state introdotte le tasse universitarie) ad oggi proporzionalmente alle tasse universitarie. Dunque, non è vero che le università pubbliche italiane siano quasi gratuite, che la qualità sia infima e che maggiori tasse comportino maggiore qualità. Consideriamo ora l’altro argomento che, secondo gli autori, giustificherebbe la proposta dell’innalzamento delle tasse e dei prestiti d’onore, quello della giustizia sociale, ovvero evitare che:




(ii) “Siano i poveri a pagare l’università dei ricchi”. In pratica gli autori della proposta vorrebbero evitare che qualcuno (i poveri) paghi per qualcosa di cui non usufruisce direttamente ma che anzi va a vantaggio di altri (i ricchi). Questo, ad esempio, già avviene con la sanità quando si pagano le tasse ma si gode di buona salute, condizione che però non dipende dal censo. D’altra parte, secondo gli autori, l’istruzione va vista come un investimento personale finalizzato all'incremento del reddito a vantaggio del singolo e non della collettività; per questo motivo sarebbe socialmente giusto che ognuno paghi di tasca propria, in particolare perché chi si avvantaggia maggiormente dell’istruzione proviene generalmente da una famiglia più abbiente: discutiamo ora questo aspetto della proposta. La premessa del ragionamento di Ichino è puramente politica:
E oggi l’Erario non può destinare somme maggiori agli atenei, neanche se tagliasse, come sarebbe auspicabile, altri sprechi nella spesa pubblica o recuperasse evasione fiscale.”
Questa affermazione non è argomentata, e infatti non è argomentabile in alcun modo, piuttosto è una convinzione politica e ideologica dell’autore che è del tutto lecito non condividere: ad esempio, chi scrive pensa che i soldi pubblici possano essere spesi meglio di quanto ha fatto l’attuale governo, sia per quantità che per qualità dell’investimento nell’università e nella ricerca, così come è realisticamente possibile fare una lotta all’evasione più efficace, ecc. Inoltre bisogna ricordare che l’Italia è sempre nelle ultime posizioni delle statistiche internazionali per spesa nella formazione universitaria e nulla vieta di rendere questa spesa dello stesso ordine, ad esempio, di un paese come la Francia. Ma lasciamo da parte queste considerazioni, che ricadono nel campo della volontà e della strategia politica, e passiamo ora all’analisi della proposta, che investe temi fondamentali come la tassazione e la giustizia sociale.




Attualmente, per legge, le tasse universitarie a carico degli studenti non possono superare il 20% del Fondo di Finanziamento Ordinario, il cui resto lo pagano tutti gli altri cittadini, anche chi l’università non la fa, tramite la fiscalità generale. L’argomento secondo il quale in un sistema pubblico le famiglie a basso reddito pagano l’università ai ricchi non considera il fatto che le aliquote fiscali crescono con il reddito, e andrebbe esteso a tutte le attività finanziate dallo Stato ma fruite in modo differenziato a seconda del reddito. In teoria, l’imposta progressiva sul reddito insieme con la tassa di successione dovrebbero garantire un’equa ridistribuzione del reddito dando “pari opportunità iniziali” a tutti in quanto, in questo modo, chi è più ricco contribuisce più degli altri a pagare i servizi pubblici: una maniera di equilibrare maggiormente il sistema potrebbe essere quella di abbassare le aliquote dei ceti meno abbienti. Dunque non è vero che nel sistema attuale i poveri pagano l’università ai ricchi; il problema è casomai quello di dare più opportunità alle classi più povere, di rendere accessibile al maggior numero possibile di cittadini l’accesso all’istruzione universitaria e, dunque, di costruire un sistema socialmente più equo oltre che più efficiente e di migliore qualità. Il sistema proposto di tasse e prestiti è funzionale a questo scopo?
Per prima cosa è necessario ricordare che quando si considera la suddivisione della popolazione in fasce di reddito ci s’imbatte nel problema dell’evasione fiscale, che affligge l’Italia nel suo complesso. A questo proposito è sufficiente notare che meno del 15% della popolazione dichiara un reddito superiore a 29.000 euro/anno. Questa situazione ci ricorda l’arbitrarietà nell’identificazione, da un punto di vista fiscale, delle famiglie più abbienti. E’ ovvio che una seria politica di lotta all’evasione fiscale è indispensabile per qualsiasi decisione lo Stato debba prendere, compreso il sistema dei prestiti d’onore. Non è forse un caso che nei paesi dove questo sistema è applicato (Stati Uniti, Inghilterra) non ci sono dei problemi d’evasione così strutturali come in Italia. Dunque, una seria lotta all’evasione fiscale non solo potrebbe fornire più risorse allo Stato, ma potrebbe anche non falsare le regole del gioco.


E’ chiaro che con il sistema di alte tasse e prestiti chi ha una famiglia abbiente non si deve indebitare. Invece, per chi non ha disponibilità, studiare diventa una scommessa, ovvero un’ipoteca sul proprio futuro. Questa situazione non può che disincentivare i meno abbienti allo studio allargando la forbice sociale. Inoltre bisogna considerare la proposta nel contesto attuale della realtà italiana, in cui la disoccupazione giovanile (15-24 anni) è del 30%, in cui si prevede che molti lavoratori atipici potranno aspirare solo all’assegno sociale (oggi di 411 euro), e con i redditi che si prospettano in futuro per gli studenti attuali la percentuale di chi non sarà in grado di restituire la somma potrebbe essere altissima generando dunque “una bolla universitaria” come sta avvenendo negli Stati Uniti: mentre le tasse universitarie sono in aumento, i rendimenti di un diploma di laurea sono in calo e la solidità dei prestiti agli studenti è minacciata da crescenti tassi di insolvenza.
Non va dimenticato poi che i prestiti per coprire le spese d’istruzione si aggiungono all’indebitamento delle famiglie, una delle principali cause dell’attuale crisi finanziaria. Per questo motivo, anche negli Stati Uniti, ci sono delle forti critiche al sistema dei prestiti. Per fare un esempio, l’86% dei medici negli Stati Uniti si laureano contraendo un debito medio di 155.000 dollari, cosa che sta portando a una notevole contrazione del numero di medici, che pure sono necessari al paese. Questo esempio mostra chiaramente che l'istruzione non è un investimento a favore del singolo ma a favore della comunità e per questo deve essere pubblica e finanziata dallo Stato: è la comunità nella sua globalità, a prescindere dal censo, che trae giovamento dall’istruzione.


Nella proposta è tuttavia previsto che vi sia un certo numero di “insolvenze”. A questo riguardo si nota che naturalmente questo comporterà che si debba prevedere una certa percentuale di casi in cui la restituzione non avverrà; si può però evitare che ne derivi un maggior onere per lo Stato stabilendo che questa percentuale sia coperta (in tutto o in parte) dalle università stesse interessate, che così ne risulteranno responsabilizzate sia riguardo alla qualità degli studenti ammessi sia riguardo alla qualità dell’insegnamento”. Dunque lo Stato (o anzi una fondazione a partecipazione statale già prevista dal DL 70 del 13 maggio 2011) anticipa dei soldi all'università per ogni studente che non può permettersi di pagare le tasse; poi, se lo studente trova un buon lavoro restituisce i soldi allo stato, altrimenti è l'ateneo che deve restituirli. In questo modo, non solo gli atenei sono costretti ad agire come imprese private che investono sulla possibilità che i propri studenti trovino lavori ben remunerati, ma diventa il mercato del lavoro a influenzare cosa e come s’insegna. E’ ovvio che la scommessa abbia tanto più probabilità di successo quanto più la famiglia dello studente è agiata e quanto più una laurea è spendibile nel mercato del lavoro. Minimizzando il rischio si è naturalmente portati a concedere prestiti a studenti provenienti da famiglie più abbienti che studiano materie più vicine al mondo delle professioni. Vale la pena ricordare, come ha ben spiegato il premio Nobel per la fisica Sheldon Glashow, che il “ritorno” economico delle scienze di base, ammesso che sia possibile quantificarlo concretamente, richiede generalmente un tempo scala più lungo di quello rilevante per la vita di una singola persona.


In conclusione la vera e unica ragione per aumentare le tasse è la compensazione della diminuzione del finanziamento pubblico all'università, da attuare secondo i dettami dell’ideologia neo-liberista, e non il perseguimento di una maggior qualità della ricerca o dell’insegnamento o di una maggiore equità sociale. Tuttavia, piuttosto che diminuire, un sistema basato su alte tasse universitarie e prestiti d’onore, aumenterebbe la differenza di possibilità e opportunità tra i ceti più e meno abbienti, allargando la forbice sociale e rendendo il sistema sostanzialmente più iniquo e con meno giustizia sociale. Inoltre, questo sistema metterebbe in grande difficoltà gli atenei nei territori economicamente più deboli abbandonando a se stesse le zone più depresse del paese. Infine, questo sistema non può che avere delle conseguenze deleterie per la stessa istituzione universitaria, condizionando non solo la scelta di chi avrà possibilità di studiare, ma anche di cosa sarà più conveniente studiare, secondo una logica assoggettata alle richieste di un malinteso mercato.


(Pubblicato da Scienza in Rete)