La curiosità ci ha spinto a fare una piccola indagine sulle performance dell’Iit e dei principali enti di ricerca pubblici italiani. In particolare abbiamo paragonato i costi e la produttività scientifica dell’Iit con quelli del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr), dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv). I risultati sono stati ripresi da molti quotidiani nazionali e stanno avendo un’inaspettata risonanza. Alcuni hanno interpretato il nostro semplice studio come una classifica degli enti di ricerca mentre altri ci hanno fatto presente che non abbiamo considerato degli aspetti importanti del problema. Sono sicuramente tante le variabili aggiuntive da considerare e chiaramente solo un’istituzione apposita può fare uno studio sistematico del genere. Noi abbiamo solo dato uno sguardo dall’alto in maniera certamente approssimativa. Per questo motivo non abbiamo fatto nessuna classifica degli enti, ma solo un confronto molto grossolano, anche se, a nostro parere, significativo.
I risultati del nostro studio mostrano che, mentre la produttività dei vari enti pubblici è circa equivalente, “l’Iit rappresenta sicuramente una fluttuazione negativa anomala nel panorama degli enti di ricerca italiani”: la produttività è decisamente inferiore a quella degli altri enti di ricerca a fronte di un finanziamento decisamente superiore. Malgrado questa situazione, l’Iit viene spesso presentato come un modello di eccellenza della ricerca italiana. Questo semplice esempio mostra in maniera lampante la necessità di fare chiarezza sullo stato della ricerca in Italia, perché quando nessuno sa niente si può spacciare qualsiasi mistificazione per verità.
Carlo Rubbia, semplice premio Nobel per la fisica che certo non raggiunge le vette di un professore d’economia alla Bocconi ed editorialista del Corriere della Sera, era stato molto critico al momento della fondazione dell’Iit, nel 2003: “Mi pare che non ci sia molta consapevolezza su che cosa significhi la nascita di un organismo del genere: tutto è molto più complicato di quanto si immagina. Nessuno, comunque, mi ha chiesto che cosa ne penso. Invece devo constatare che c’è un silenzio assordante sugli altri enti italiani di ricerca già esistenti come il Cnr, l’istituto di fisica nucleare, lo stesso Enea. Per cominciare a raccogliere qualche frutto da una istituzione nuova occorrerà una decina d’anni e intanto che cosa succede agli altri enti? E poi perché crearne un altro se quelli già attivi possono fare le stesse cose? Di questi, invece, non si parla più. Risolviamo i problemi che hanno ma salviamo ciò che di buono offrono e sosteniamoli con una politica di sviluppo. Si destinano 100 milioni di euro l’anno al neonato organismo quando l’intero contributo dello Stato all’Enea, 3.700 dipendenti e 10 laboratori, è di 200 milioni di euro l’anno. Che cosa poi debba fare il fantomatico Mit italiano è oscuro”.
Di parere diametralmente opposto era stato il prof. Giavazzi, che scrisse: “Riversare più fondi in questo sistema [pubblico, ndr] è come buttarli al vento” e che l’unico modo per garantire “rigore, controlli ed incentivi …è muoversi all’esterno dell’università italiana di oggi. Vittorio Grilli ci sta provando con l’Iit: è per questo che cerchiamo di aiutarlo mentre tutti i conservatori lo criticano”. Curiosa situazione quella in cui il prof. Giavazzi bolla come conservatore Carlo Rubbia. Malgrado negli ultimi anni gli enti di ricerca pubblici siano stati trattati da carrozzoni statali, fonte di sprechi e alloggio dei buona a nulla, e dunque soggetti ideali per tagli di risorse, l’Iit non è stato, finora, per buona pace del prof. Giavazzi, “uno strumento per far compiere un salto al Paese, perché introdurrà la competizione nel mondo dell’università e della ricerca e romperà lobby e baronie”: piuttosto un istituto che ha prodotto risultati molto modesti rispetto al resto degli enti pubblici, malgrado un ingente finanziamento e una grande agilità nell’amministrazione.
Carlo Rubbia era stato dunque un buon profeta. Nell’intervista citata aggiunse anche un altro paio di considerazioni di buon senso, subito dimenticate e ortogonali al Giavazzi-Iit-pensiero: “La ricerca applicata è una banalità. Come diceva Einstein esistono soltanto le applicazioni della ricerca. Prima, però, bisogna investire nella scienza fondamentale. Oggi non avremmo l’ingegneria genetica se Watson e Crick non avessero scoperto cinquant’anni fa la struttura del Dna. Puntare solamente alla ricerca applicata è un grosso errore”. E sostenne inoltre che bisogna “puntare sui ricercatori. Nei discorsi che si ascoltano negli ultimi tempi ci si dimentica degli uomini e delle donne che fanno ricerca. Inseguiamo modelli stranieri ma intanto da tre anni sono bloccate le assunzioni e oggi l’età media di chi lavora è intorno ai 50 anni, quindi fuori gioco. Nel frattempo ci sfuggono le nuove generazioni dalle quali nascono i risultati. In altre parole, si è perso il fulcro della discussione”. Tutto puntualmente avvenuto.
(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano 20.4.2011)
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