"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




giovedì 29 settembre 2011

Valutare la ricerca?

L’università italiana cambia. Una serie di interventi legislativi ha ridisegnato l’organizzazione interna dell’università pubblica, mutandone profondamente la governance. Sono state modificate anche le procedure per il reclutamento dei docenti e dei ricercatori Inoltre, un sistema di valutazione dovrebbe presto entrare in funzione a pieno regime, introducendo novità significative, che avranno conseguenze per il reclutamento, le progressioni di carriera e il finanziamento degli atenei. Si tratta di provvedimenti che riprendono in parte spunti emersi in decenni di dibattito sui difetti dell’università pubblica italiana. 

Il modo in cui tali provvedimenti sono stati concepiti e portati avanti dall’attuale governo non ne inficia taluni aspetti positivi: occorre infatti ripristinare la capacità di tener fede alla propria missione istituzionale da parte degli atenei del paese, così come l’immagine dell’Università italiana all’interno del paese stesso. Tuttavia, un giudizio sulle buone intenzioni del cuoco non garantisce affatto che tutte le pietanze che prepara siano ugualmente ben riuscite. Ce ne saranno di buone e di meno buone, e non si può escludere che qualcuna si riveli, con il tempo, nociva per la salute di chi se ne ciba.

La ragione per cui poniamo questo problema è che nell’università lavoriamo, e vorremmo continuare a fare il nostro lavoro nel modo migliore a lungo. Infatti, contrariamente a quel che certe campagne di stampa vorrebbero far credere, l’università italiana non è fatta solo di “precari” e “baroni”. Ci sono migliaia di ricercatori e professori nella fascia d’età tra i trentacinque e i quarantacinque anni. Preparati, spesso con esperienze di ricerca all’estero, e con pubblicazioni internazionali. Persone che hanno investito e vogliono continuare a investire tempo e passione nell’università di questo paese, le cui voci fino ad ora hanno trovato ben poco accoglienza da parte degli organi di stampa e hanno faticato a raggiungere l’opinione pubblica.

Per questo abbiamo ritenuto utile promuovere un incontro che si terrà all’università di Milano (il 30 settembre, aula 420 di via Festa del Perdono, ore 11.00) per discutere delle pietanze che stanno per esserci servite, cominciando dalla valutazione della ricerca individuale e dall’impatto che essa avrà sul reclutamento e sulla carriera di docenti e ricercatori. Invitiamo tutti coloro che sono interessati a partecipare e, se ritengono, a portare il proprio contributo di idee per aiutarci a capire se ci sono aspetti del sistema di valutazione che si prospetta che potrebbero essere migliorati, anche alla luce delle critiche cui vengono sottoposti sempre più di frequente quelli in vigore già da tempo in altri paesi, in particolare nel Regno Unito, cui il nostro è parzialmente ispirato.

Antonio Banfi  Mario Ricciardi Vito Velluzzi 

Sono previsti interventi di Alberto Baccini, Giuseppe de Nicolao, Francesco Sylos Labini, e tanti altri.


Slides di Alberto Baccini
Slides di Giuseppe de De Nicolao 
Slides di Francesco Sylos Labini 

mercoledì 28 settembre 2011

Istruzione pubblica e vantaggi pubblici



Pochi giorni fa l’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo (Ocse) ha pubblicato  il rapporto Education at a Glance 2011, che presenta una documentata analisi statistica dell’istruzione dei principali paesi del mondo. Giuseppe de Nicolao ne ha discusso i punti salienti, per quanto riguarda l’università e la ricerca. Ad esempio, in Italia ci sono pochissimi laureati rispetto alla media Ocse (posizione 34 su 36 nazioni). Questo non tanto per inefficienza, quanto perché l’investimento in istruzione avanzata è molto scarso: la  spesa cumulativa media per studente  è inferiore al 75% della media Ocse mentre la spesa in percentuale al Pil ci vede  quartultimi su 34 nazioni.

La quantità della spesa è dunque un aspetto rilevante del problema che va considerato in tanti ambiti, a cominciare dall’obiettivo di aumentare il numero di laureati  garantendo seriamente il diritto allo studio. Per semplificare possiamo immaginare due modelli antitetici per reperire le risorse. Nel primo, essenzialmente quello attuale in Italia come nella maggior parte dei paesi europei, l’istruzione e la ricerca sono pubbliche e finanziate dalla fiscalità generale più dalle tasse universitarie. Entrambe queste tassazioni (circa 80% e 20% del totale della spese) sono basate su aliquote  progressive con il reddito.

Nel secondo modello si parte dal presupposto che lo Stato è inefficiente ed il sistema non è riformabile: mentre il mercato crea ricchezza, lo Stato è parassita. Riversando il costo dell’università direttamente sugli utenti (le famiglie) si dovrebbero innescare dei meccanismi di mercato che farebbero aumentare vorticosamente e magicamente la qualità del sistema universitario. Per questi motivi, seguendo la recente esperienza inglese,  bisognerebbe consentire agli atenei di aumentare le tasse universitarie per tutti gli studenti
 anticipando, a carico dello Stato, il costo sostenuto dagli studenti meno abbienti per frequentare l’università. Bisognerebbe consentire poi, agli studenti beneficiati del prestito, di ripagare il debito in futuro, ma solo se e quando raggiungeranno un reddito sufficientemente elevato

Mentre in Inghilterra c’è stato un furioso dibattito sull’introduzione di questo modello da parte del governo Cameron, in Italia c’è chi utilizza ogni occasione possibile per riproporre questa soluzione, o varianti di questa (vedi ad esempio qui). Questa tesi viene giustificata dal fatto che è necessario evitare che “i poveri finanzino la laurea ai ricchi” come adesso avverebbe in quanto i poveri vanno poco all’università. Dunque, anche se a prima vista non sembrerebbe, visto che di colpo, a parità di fiscalità generale, le tasse universitarie aumenterebbero di un fattore 5/10 (o anche più), questa soluzione viene presentata come  un modello a vantaggio dei “poveri”: si tratterebbe dunque  di una proposta di sinistra tanto che si cerca di convincere il Pd a farla propria.

Gli argomenti usati fanno tuttavia acqua da tutte le parti. Ad esempio, poiché le aliquote, dirette ed indirette, sono progressive con il reddito non è vero che nel sistema attuale i “poveri” pagano l’università ai “ricchi”:  se ci fosse uno sbilanciamento in questo senso (cosa da dimostrare) sarebbe comunque sufficiente abbassare relativamente le aliquote dei ceti meno abbienti rispetto a quelle dei ceti più abbienti per riequilibrare la situazione. Il meccanismo più ideologico e denso di potenzialità distruttive di questa proposta è legato alla restituzione del debito: se lo studente trova un buon lavoro restituisce i soldi allo Stato, altrimenti è l’ateneo che deve restituirli. In questo modo gli atenei si vedono costretti ad agire come imprese private: investono sulla possibilità che i propri studenti trovino lavori ben remunerati.

Diventa così il mercato del lavoro a influenzare cosa  s’insegna e, minimizzando il rischio, si è naturalmente portati a concedere prestiti a studenti provenienti da famiglie più abbienti che studiano materie più vicine al mondo delle professioni; analogamente, l’accorto investitore-studente sceglierà gli studi potenzialmente più remunerativi. Si presuppone, dunque, che  l’istruzione sia un investimento personale finalizzato all’incremento del reddito a vantaggio del singolo e non della collettività e che il valore sociale di un’attività lavorativa venga misurato dal reddito che se ne ricava e non anche, o sopratutto, dall’utilità sociale di questa: è più utile socialmente un promoter finanziario o un maestro elementare?

Contro questa visione tanto parziale quanto limitata dell’istruzione centinaia di studiosi inglesi hanno recentemente firmato un documento dove si afferma “che l’istruzione superiore ha benefici sia pubblici  che  privati e che i benefici pubblici necessitano di un sostegno finanziario, che le università pubbliche sono necessarie per costruire e mantenere la fiducia nel dibattito pubblico, che le università pubbliche hanno una missione sociale e contribuiscono a migliorare la disuguaglianza sociale, che la pubblica istruzione superiore è parte di un contratto generazionale, in cui una generazione più vecchia investe nel benessere delle generazioni future, che le istituzioni pubbliche che forniscono programmi simili di studio dovrebbero essere parimenti finanziate, che l’istruzione non può essere trattata come un semplice bene di consumo, che la formazione di competenze non è la stessa cosa della formazione universitaria e, infine, che le università sono non solo delle istituzioni globali, ma devono anche servire le loro comunità locali e regionali.”

Quello che si può e si deve fare è cercare di migliorare l’esistente: il finanziamento statale all’istruzione superiore, come anche alla ricerca di base, rappresenta un contributo imprescindibile per qualsiasi società avanzata in quanto istruzione e ricerca fanno parte di quelle infrastrutture di un paese che ne determinano le prospettive, a breve e a lungo termine, di  crescita economica e civile.

martedì 6 settembre 2011

Festival della Letteratura



PERCHE' DOBBIAMO PAGARE UNO SCIENZIATO (QUANDO FACCIAMO LE MIGLIORI SCARPE DEL MONDO)?  09/09/2011 - 14:30, Conservatorio di musica Lucio Campiani - Chiostro

Lo scorso autunno studenti e ricercatori sono saliti sui tetti, seguendo gli operai cassintegrati e gli immigrati irregolari. Il tumulto nelle università è presto uscito di scena dai media nazionali per far posto alle spese natalizie, ma il disagio - e l’emorragia dall’Italia di giovani formati a spese della collettività - persiste. A cosa serve la ricerca in un paese che ha dato grandi contributi scientifici, ma che molti oggi dicono “a vocazione turistica”? È redditizio spendere per la ricerca fondamentale, e come può intervenire il privato? Come si coniuga autonomia del ricercatore e valutazione del suo lavoro? Lo stato e le potenzialità della ricerca scientifica in Italia saranno analizzati da Giulio Peruzzi, professore di storia della scienza dell’Università di Padova, e da Francesco Sylos Labini, astrofisico del Centro Enrico Fermi e blogger.

LA DISTANZA DELLE STELLE (LAVAGNE - Problemi scientifici (e musicali) in piazza) 08/09/2011 - 20:30, Piazza Mantegna , ingresso libero

(Francesco Sylos Labini) Quant’è grande l’Universo “visibile”, e come si misura? Dal 2000 a.c. al 2011 d.c., l’uomo, relegato sulla superficie della piccola sfera terrestre, è stato in grado di misurarsi con le distanze siderali.