"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.
domenica 25 luglio 2010
Riforma universitaria: fatti e misfatti
Il disegno di legge, cosiddetto Gelmini, sulla riforma dell’università è in dirittura di arrivo in Parlamento. Come abbiamo già messo in evidenza in questo blog, questa riforma non solo sta per assestare un colpo mortale all’università ed alla ricerca in Italia, ma sembra proprio essere un vero e proprio insulto alle nuove generazioni. Quelli che nell’università non sono ancora entrati e che probabilmente, a parte rare eccezioni, non ci entreranno mai. Una riforma del sistema universitario che non metta al centro il problema epocale a cui ci troviamo davanti oggi, è semplicemente una presa in giro. Per capire in cosa questo problema consista, mi focalizzo su due numeri: nei prossimi dieci anni circa il 50% del corpo docente andrà in pensione (con le regole attuali) mentre il numero di “precari” rappresenta più del 50% del personale permanente di cui una buona parte costituiscono la categoria dei docenti a contratto, sottopagati e assunti in maniera spesso arbitraria, [che sono quasi quanto i professori di ruolo]. Invece di guardarsi l’ombelico, le varie associazioni del personale docente dovrebbero riflettere su questi numeri che a breve produrranno sul sistema uno tsunami cogliendo il sistema impreparato. Non perché non si aveva la possibilità di conoscere in anticipo cosa sarebbe successo ma perché nessuno si è sforzato di avere uno sguardo in prospettiva sull’università basato sulla situazione reale e sui numeri complessivi, chi troppo preso dalla ricerca del proprio tornaconto chi incapace di guardare alla situazione in modo oggettivo, prescindendo da condizionamenti ideologici.
Il PD ha recentemente proposto di abbassare l’età della pensione per i docenti universitari a 65 anni, come avviene in tutti gli altri paesi Europei (con piccole variazioni, ma comunque generalmente non si va mai oltre il 70 anni come avviene da noi). C’è subito stato un “levar di scudi” ed alcuni hanno definito i responsabili del PD “fascisti” (e ce ne vuole di fantasia!) che vogliono rottamare gli anziani, senza comunque mai preoccuparsi di capire la situazione. Il Ministro Gelmini un bel mattino di luglio 2010 ha fatto sua questa idea (almeno in parte) affermando che i docenti che vanno in pensione oltre i 70 anni addirittura non rispettino la legge (!). A parte queste stravaganze, come per ogni problema legato alla riforma del sistema universitario, non c’è la bacchetta magica che possa risolvere la situazione. E’ del tutto condivisibile abbassare l’età pensionabile, visto che in Italia è la più alta del mondo per i docenti universitari come anche la loro età anagrafica. Chiunque si imbarchi in uno studio sistematico dell’età dei docenti universitari italiani, come abbiamo fatto Stefano Zapperi ed io vari anni anni fa, dovrebbe giungere ad analoghe conclusioni. Personalmente, invece di essere contento che alla fine la politica segua queste idee, ne sono preoccupato. Perché nella situazione attuale l’abbassamento dell’età pensionabile, senza l’adozione di altre misure, porterà ad uno squilibrio ancora maggiore con più del 60% dei docenti che andranno in pensione nel giro di pochi anni. E’ vero che ci vuole un ricambio come è vero che la maggior parte dei pensionamenti riguarda quei docenti che sono stati assunti con la famosa ope-legis del 1980, che hanno avuto una vita particolarmente facile se confrontata a quella delle generazioni successive, ma un ricambio di tale dimensioni deve essere ben definito, diluito nel tempo e soprattutto programmato.
Il problema principale è che non mi sembra proprio che le parole “assunzione di nuovo personale” siano contemplate dal Ministro Gelmini (e/o dal suo entourage di consiglieri ed esperti). Invece si parla di abolizione del ruolo di ricercatore (una delle poche valvole di sfogo per le nuove generazioni) e della sua sostituzione con la TTI (Tenure Track all’Italiana), si parla di blocco delle assunzioni, di blocco del turnover, di tagli al finanziamento. La mia generazione è quella a cui le parole “blocco” e “tagli” risuonano dentro la pancia. Quello di cui ci sarebbe bisogno da domani è un piano di assunzioni ben preciso per il prossimo decennio: almeno 2000 assunzioni all’anno solo per sostenere il sistema e non causare un ulteriore invecchiamento del personale docente che é già il più anziano al mondo.
Nelle intenzioni del Ministro Gelmini invece il pensionamento dei docenti è un’altra clava che viene usata in maniera gratuita, o forse in maniera strumentale per rabbonire una parte del mondo accademico (quello più giovane), ma senza un piano lungimirante. C’è bisogno di un’opposizione intransigente, con iniziative consone alla gravità della situazione, ma è necessario anche elaborare una riforma dell’università che abbia presupposti e prospettive completamente differenti da quelle del DDL Gelmini. Perché rifiutare una riforma insensata come quella della Gelmini è necessario, ma difendere l’esistente è impossibile. Per questo una riflessione seria e sistematica è quantomai opportuna in questo momento, anche se mi sembra difficile che la classe accademica, che ha messo del suo nel generare il disastro attuale, sia capace di auto-riformarsi. C’è bisogno di un coinvolgimento di tutti, compresi gli studenti e gli attuali precari ed i ricercatori che alla fine rappresentano il futuro del sistema universitario, ed anche quella parte dei sindacati che lavora con competenza nel mondo della ricerca, come la FLC-CGIL, per capire come agire.
(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano)
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venerdì 23 luglio 2010
Chi ricerca non trova (di Alessandro Ferretti)
Recensione su l'Indice
Negli ultimi due anni, i pesanti tagli alle risorse e l’acuto bisogno di buone riforme dell’università italiana hanno dato vita a importanti movimenti di protesta, da quello dell’“Onda” contro la legge 133/08 a quello attuale contro il disegno di legge 1905 “Gelmini”. Al contempo, è fiorita una quantità di saggi sui problemi universitari e sulle possibili soluzioni. Gran parte di questa produzione letteraria appartiene al genere dei libri a tesi. Pur essendo a volte opposti nelle finalità, questi saggi sono accomunati dall’impostazione ideologica: i problemi dell’università sono drammatici, ma le loro cause sono semplici ed evidenti; le soluzioni, radicali e dolorose, sono a portata di mano: basta avere un po’ di coraggio! L’autore presenta dati e testimonianze che supportano la correttezza della sua idea e inquadra il caso in un frame semplice e preciso, dal quale consegue necessariamente l’individuazione del colpevole (il baronato, i governi, l’indole degli italiani…) e l’altrettanto fatidica ipersoluzione à la Watzlawick. Al termine della lettura si ha la confortante sensazione di avere compreso la questione, e ci si chiede cosa si aspetti a varare l’immediata e salvifica riforma. L’università truccata di Roberto Perotti ne è un esempio, ma non è il solo.
Se però il lettore incuriosito incappa in un secondo libro del genere, magari di segno opposto, cadrà nella più profonda confusione. Tutto appare rovesciato. I professori che magari prima erano baroni onnipotenti sono ora vittime dell’incompetenza di legislatori e governanti, e anche qui una gran messe di dati statistici supporterà infallibilmente questa visione.
Si ottiene lo stesso effetto di straniamento di quando si assiste alle arringhe finali di accusa e difesa in un processo: due modi completamente differenti di rappresentare la stessa situazione, che lasciano il lettore sconcertato e diffidente.
Fortunatamente, però, ci sono anche studi condotti seguendo un metodo più proficuo: ad esempio, I ricercatori non crescono sugli alberi di Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi (pp. XV-113, € 12, Laterza, Roma-Bari 2010). È un’esposizione sintetica di meriti e debolezze della variegata ricerca italiana, scritta da due ricercatori che si avvalgono di una conoscenza approfondita delle università italiane ed estere. Il fatto che praticamente tutto il finanziamento statale agli atenei venga speso per gli stipendi testimonia il ruolo chiave del personale universitario. È quindi a partire da uno studio della sua attuale composizione che i nodi sono delineati e inquadrati nel contesto: l’invecchiamento del corpo docenti-ricercatori e l’erraticità e arbitrarietà dei concorsi. Il più grave problema strutturale è l’accumulo di decine di migliaia di precari: tipicamente svolgono le stesse mansioni del personale strutturato e sono indispensabili ad assicurare la sopravvivenza del sistema, ma permangono in uno stato di intollerabile incertezza che oltretutto li priva della necessaria indipendenza scientifica. Dal momento che non basta avere i ricercatori o i professori migliori se poi non sono in condizione di fare ricerca, viene anche evidenziata l’insufficienza e l’incertezza dei finanziamenti, aggravata dalla sostanziale assenza di valutazione. A proposito di quest’ultima, la centralità dell’elemento umano è ribadita dal capitolo dedicato ai tanto decantati indicatori bibliografici (impact factors e simili), di cui sono evidenziate le potenzialità e i (molti) limiti.
L’onnipresente retorica del merito, del dirigismo e di un idealizzato “sistema americano” che punta alla “creazione dell’eccellenza” viene confrontata con la realtà dei fatti. Emblematico sotto questo aspetto il caso dell’Istituto italiano di tecnologia, caratterizzato da una struttura verticistica e da cospicue risorse, ma incapace di garantire risultati all’altezza. Ne
segue che un sistema complesso e diversificato come quello della ricerca universitaria non può essere migliorato a costo zero, con formule magiche o tantomeno facendo tabula rasa dell’esistente, ma introducendo pragmaticamente aggiustamenti e regole certe, incentivando coloro che già si dedicano con impegno e passione alla ricerca.
Alla luce di queste conclusioni, i rimedi prospettati dal disegno di legge 1905 appaiono dei palliativi, quando non autenticamente catastrofici. Basti citare l’aggiunta di un’ulteriore figura a tempo determinato in sostituzione degli attuali ricercatori strutturati, che estende il precariato fino ai quarant’anni di età: condanna alla fuga all’estero le prossime generazioni di giovani ricercatori e mette su un binario morto 27.000 ricercatori strutturati. Con una sola norma si assesta un colpo mortale al presente e al futuro dell’università, senza che la società italiana ne tragga il benché minimo vantaggio. Dal confronto tra la seria ed esaustiva analisi degli autori e le ricette presentate da maggioranza e opposizione, quasi sempre senza alcun serio confronto con chi nell’università lavora e studia, nasce un serio dilemma: i nostri decisori e gli intellettuali che li supportano sono superficiali e ignari delle conseguenze delle loro politiche universitarie, o sono consciamente animati da una volontà di smantellamento del sistema pubblico di alta formazione e ricerca?
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domenica 18 luglio 2010
Riformare i concorsi
All’Istituto Luigi Sturzo c’è stato, qualche giorno fa, un interessante convegno sul tema “Riformare i concorsi per garantire la responsabilità dei reclutatori e l’autonomia dei ricercatori”.
Tema spinoso dunque. In breve, l’idea della proposta è quella della responsabilità condivisa, ovvero “i componenti della commissione (i reclutatori) devono essere direttamente responsabili della loro scelta attraverso opportuni incentivi e disincentivi legati alla capacità valutata del reclutato” da accertare dopo la nomina. In pratica, se il ricercatore che ha vinto il concorso non risultasse essere “bravo” nella ricerca o nella didattica, tutti i componenti della commissione ne trarranno uno svantaggio e viceversa. In altri sistemi questo tipo di meccanismi sono già operanti.
In teoria il meccanismo principe per la selezione del “migliore” dovrebbe essere basato sull’aumento del “prestigio” di un dipartimento ma questo è un concetto un po’ astratto. Per rendere la questione più pragmatica, ad esempio, negli Stati Uniti, si è adottato il meccanismo delle overhead, per cui una parte dei finanziamenti (di provenienza statale o privata) ottenuti dai singoli ricercatori vengono ridistribuiti all’interno del dipartimento di appartenenza. Dunque, conviene a tutti i membri del dipartimento assumere un ricercatore che riesce (o riuscirà) a vincere dei finanziamenti per progetti di ricerca. In Inghilterra invece il 25 % del finanziamento (pubblico) delle università (pubbliche) è assegnato su base competitiva in base ad un’analisi della qualità della ricerca (per quanto sia discutibile ogni metodo di valutazione è sempre meglio del regno dell’arbitrio totale). Lo stesso avviene in vari altri paesi europei nei quali è presente un qualche meccanismo esterno (indipendente, senza conflitti d’interesse) che incentivi la selezione dei “migliori”. E in Italia ?
In Italia, in questo ambito, partiamo da zero, o quasi. Al di là dei casi più eclatanti che sconfinano con problemi giudiziari, nei concorsi non è previsto nessun meccanismo di azione-reazione e tutto è lasciato alla “coscienza” dei commissari. Senza l’introduzione di meccanismi del genere è difficile cambiare delle dinamiche perverse consolidate negli scorsi decenni, a prescindere da come i commissari vengano scelti (in pratica sono stati provati quasi tutti i modi con nessuna differenza significativa). Ma bisogna anche considerare che, in Italia, la percentuale dei fondi assegnata su base competitiva è dell’1% dell’intero stanziamento statale per l’istruzione superiore, mentre i fondi privati sono quasi a zero. Gli incentivi o i disincentivi sono dunque quasi assenti in una situazione in cui la gran parte dello stanziamento per l’università va in stipendi. Inoltre, in Italia, non c’è nessun meccanismo di valutazione indipendente, e nessun tipo di monitoraggio su scala nazionale della qualità dei docenti e dei ricercatori.
Bisognerebbe comunque partire da qualche fantastica innovazione del tipo: concorsi che si tengono con scadenza regolare, bandi comprensibili anche ad uno straniero (ma anche ad un italiano !), assenza di bolli e timbri che non garantiscono nessuno e scoraggiano i candidati bravi, bandi con profili abbastanza ampi. Bisogna incentivare la mobilità, tramite azioni concrete in sede di scelta dei candidati, cercando di spezzare il legame medioevale in voga in molti dipartimenti. E soprattutto trasparenza estrema nei concorsi, con un monitoraggio in tempo reale sul web di quello che succede, di quali siano i CV dei candidati e quelli dei commissari. La vera volontà di riforma si misura innanzitutto sulle “piccole cose”. Un parametro che potrebbe un giorno mostrare che l’Italia stia diventando un paese normale (come gli altri europei) sarà quando uno straniero potrà vincere un posto in Italia (come tanti italiani vincono all’estero) senza che questo sia visto come un evento miracoloso ed incredibile. La strada è dunque lunga, ma percorrerla è l’unica possibilità per cercare di rimettere in sesto un sistema disastrato. Anche perché, andando avanti di questo passo, tra tagli nel finanziamento e riforme insensate, i concorsi all’università non si faranno proprio più.
Tema spinoso dunque. In breve, l’idea della proposta è quella della responsabilità condivisa, ovvero “i componenti della commissione (i reclutatori) devono essere direttamente responsabili della loro scelta attraverso opportuni incentivi e disincentivi legati alla capacità valutata del reclutato” da accertare dopo la nomina. In pratica, se il ricercatore che ha vinto il concorso non risultasse essere “bravo” nella ricerca o nella didattica, tutti i componenti della commissione ne trarranno uno svantaggio e viceversa. In altri sistemi questo tipo di meccanismi sono già operanti.
In teoria il meccanismo principe per la selezione del “migliore” dovrebbe essere basato sull’aumento del “prestigio” di un dipartimento ma questo è un concetto un po’ astratto. Per rendere la questione più pragmatica, ad esempio, negli Stati Uniti, si è adottato il meccanismo delle overhead, per cui una parte dei finanziamenti (di provenienza statale o privata) ottenuti dai singoli ricercatori vengono ridistribuiti all’interno del dipartimento di appartenenza. Dunque, conviene a tutti i membri del dipartimento assumere un ricercatore che riesce (o riuscirà) a vincere dei finanziamenti per progetti di ricerca. In Inghilterra invece il 25 % del finanziamento (pubblico) delle università (pubbliche) è assegnato su base competitiva in base ad un’analisi della qualità della ricerca (per quanto sia discutibile ogni metodo di valutazione è sempre meglio del regno dell’arbitrio totale). Lo stesso avviene in vari altri paesi europei nei quali è presente un qualche meccanismo esterno (indipendente, senza conflitti d’interesse) che incentivi la selezione dei “migliori”. E in Italia ?
In Italia, in questo ambito, partiamo da zero, o quasi. Al di là dei casi più eclatanti che sconfinano con problemi giudiziari, nei concorsi non è previsto nessun meccanismo di azione-reazione e tutto è lasciato alla “coscienza” dei commissari. Senza l’introduzione di meccanismi del genere è difficile cambiare delle dinamiche perverse consolidate negli scorsi decenni, a prescindere da come i commissari vengano scelti (in pratica sono stati provati quasi tutti i modi con nessuna differenza significativa). Ma bisogna anche considerare che, in Italia, la percentuale dei fondi assegnata su base competitiva è dell’1% dell’intero stanziamento statale per l’istruzione superiore, mentre i fondi privati sono quasi a zero. Gli incentivi o i disincentivi sono dunque quasi assenti in una situazione in cui la gran parte dello stanziamento per l’università va in stipendi. Inoltre, in Italia, non c’è nessun meccanismo di valutazione indipendente, e nessun tipo di monitoraggio su scala nazionale della qualità dei docenti e dei ricercatori.
Bisognerebbe comunque partire da qualche fantastica innovazione del tipo: concorsi che si tengono con scadenza regolare, bandi comprensibili anche ad uno straniero (ma anche ad un italiano !), assenza di bolli e timbri che non garantiscono nessuno e scoraggiano i candidati bravi, bandi con profili abbastanza ampi. Bisogna incentivare la mobilità, tramite azioni concrete in sede di scelta dei candidati, cercando di spezzare il legame medioevale in voga in molti dipartimenti. E soprattutto trasparenza estrema nei concorsi, con un monitoraggio in tempo reale sul web di quello che succede, di quali siano i CV dei candidati e quelli dei commissari. La vera volontà di riforma si misura innanzitutto sulle “piccole cose”. Un parametro che potrebbe un giorno mostrare che l’Italia stia diventando un paese normale (come gli altri europei) sarà quando uno straniero potrà vincere un posto in Italia (come tanti italiani vincono all’estero) senza che questo sia visto come un evento miracoloso ed incredibile. La strada è dunque lunga, ma percorrerla è l’unica possibilità per cercare di rimettere in sesto un sistema disastrato. Anche perché, andando avanti di questo passo, tra tagli nel finanziamento e riforme insensate, i concorsi all’università non si faranno proprio più.
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mercoledì 14 luglio 2010
Succede nel Paese di Galileo
La ricerca scientifica dovrebbe essere in teoria un settore a cui il Governo dovrebbe prestare una certa attenzione e cura per il suo ruolo nell’innovazione tecnologica e nella crescita culturale del paese. Le scelte strategiche sulla ricerca dovrebbero essere pubblicamente discusse e non dovrebbero essere prerogative di pochi, soprattutto se avulsi al mondo della ricerca stessa. La gestione degli enti di ricerca dovrebbe essere affidata a scienziati di chiara fama affiancati da degli amministratori che li aiutino a destreggiarsi nella giungla normativa della pubblica amministrazione. Gli stessi principi dovrebbero valere per l’università. Ma, come tutti i posti di “potere” del settore pubblico, gli enti di ricerca sono già diventati da tempo terreno di conquista per una sorta di sottobosco politico.
Le università, con la riforma della governance contenuta nel DDL Gelmini si apprestano a diventare una sorta di RAI generalizzata, nei cui consigli di amministrazione vedremo probabilmente personaggi che con l’università, la cultura e la ricerca non hanno niente a che fare. In più, di tanto in tanto arrivano sulla testa dei ricercatori decisioni incomprensibili e del tutto fuori dalla realtà.
Tra gli altri “incentivi” per la ricerca contenuta nell’ultima legge finanziaria c’è stata la proposta di accorpare l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) al CNR. Dunque dall’oggi al domani un ente di ricerca, che pure ha dei buoni numeri da un punto di vista della produzione scientifica, viene di fatto cancellato. Per fortuna l’accorpamentodell’INAF al CNR si trovava nella prima bozza di legge, che è stata poi modificata ed ora sembra (ma non si può mai dire) che l’INAF continuerà la sua attività. Tutto questo è avvenuto non solo senza una discussione pubblica, ma senza alcun motivo apparente, visto che, come rilevato dal Prof. Tommaso Maccacaro (Presidente dell’INAF) in una lettera appello al Presidente Napolitano , non si sarebbe avuto nessun vantaggio da un punto di efficienza o spesa accorpando l’INAF al CNR. Gli scienziati afferenti all’INAF, sentendosi tra l’altro trattati come delle inutili fonti di spesa, per protestare contro queste decisioni arbitrarie ed irragionevoli e nella preoccupazione che l’accorpamento sia rimandato di qualche mese, hanno scritto un articolo per informare la comunità internazionale di questi avvenimenti . Concludono il loro articolo dicendo: “Il rapido peggioramento delle condizioni e le prospettive allarmanti ci hanno portato a questa iniziativa. In questa pagina web ci sono i curriculum vitae degli autori di questo articolo…Un giorno, prima o poi, potresti trovare uno di questi CV tra quelli che hanno fatto domanda alla posizione nell’Istituto dove lavori. Nel frattempo, consci che le nostre competenze siano a rischio di essere perdute, ci proponiamo per una serie di lezioni al tuo istituto, per piantare un seme della conoscenza che è nata e cresciuta nel nostro paese”.
Chi ci ha provato sa molto bene che spiegare quello che succede nell’università e nella ricerca in Italia ad uno straniero è una fonte inesauribile di frustrazioni. Ma la cosa più allarmante è che nell’opinione pubblica in Italia ed in chi dirige il sistema università-ricerca non si vede alcuna reale preoccupazione per la perdita di competitività del sistema ed è per questo che l’unica strada che rimane aperta è quella di appellarsi alla comunità internazionale o al Presidente della Repubblica.
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mercoledì 7 luglio 2010
Cervelli che vanno e che non vengono
In tutto il mondo la ricerca si basa anche su personale non permanente. E’ del tutto normale che dopo la laurea ed il dottorato si intraprenda un periodo di studio in altre sedi o paesi: la ricerca si basa anche su scambi culturali e di professionalità ed anzi è del tutto auspicabile non rimanere ancorati allo stesso posto per tutta la vita. In giro per l’Europa ho conosciuto schiere di ricercatori con contratti temporanei di qualsiasi nazionalità. Dopo qualche anno e dopo aver cambiato qualche paese, quando si ha una certa esperienza ed una certa visibilità internazionale nel proprio campo di ricerca, si inizia a pensare di far domanda per una posizione permanente da qualche parte. Alcuni preferiscono cercare di tornare nel proprio paese d’origine, possibilità permettendo, altri sono invece tentati da altri paesi perché la carriera è più allettante o perché le condizioni di ricerca sono migliori o per altre diverse ragioni. Così in Francia, in Svizzera, in Inghilterra, ma anche in Spagna ed ovviamente negli Stati Uniti è del tutto normale (almeno per quello che riguarda le discipline scientifiche) trovare persone di tutto il mondo a lavorare nello stesso laboratorio. La selezione è basata sul merito e non sul paese, la città o l’università di provenienza; la mobilità è una caratteristica fondamentale del “mercato” del lavoro nella ricerca e nell’istruzione superiore.
Dunque come in tutti gli altri paesi, un periodo di formazione, seguito da un processo di selezione meritocratico è inevitabile ed opportuno. Il problema in Italia non è tanto che i “cervelli fuggano” ma che non ci siano “cervelli” che, indipendentemente dalla loro nazionalità, possano venire a lavorare nelle università e nei centri di ricerca italiani. L’altra faccia della medaglia è che tanti giovani italiani riescono ad ottenere posizioni in altri paesi. Quando si guardano indietro e vedono l’Italia con gli occhi freschi di chi ha conosciuto dei sistemi diversi e più efficienti sono presi da rabbia e sconforto. Nel caso, non isolato, di un gruppo di giovani fisici che ha ottenuto una posizione permanente in Francia, c’è stato anche uno sforzo propositivo molto interessante: hanno scritto una lettera all’allora Ministro Mussi dal titolo “Alcune considerazioni sul sistema di reclutamento dei ricercatori italiani”. Anche se di qualche anno fa, ve ne consiglio la lettura.
Tra gli altri punti che toccano, mettono l’accento su un fatto fondamentale: il sistema così com’è non è sostenibile ed è destinato alla scomparsa. Negli ultimi anni c’è stata una veloce accelerazione verso il baratro. Solo una presa di coscienza, non unicamente da parte del mondo accademico, che ci ha sicuramente messo del suo nella destrutturazione del sistema che ci ritroviamo adesso, ma della società più in generale, sul ruolo della ricerca e dell’università nella vita economica e civile del paese potrà forse dare una spinta ad invertire una rotta che ora pare irreversibile.
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giovedì 1 luglio 2010
Ohibò, la Gelmini è su Nature
C’è grande agitazione nel mondo universitario contro la riforma Gelmini e la manovra economica. Anche una rivista scientifica prestigiosa come Nature ha appena pubblicato un editoriale dal titolo “Gli scioperi potrebbero “rompere” le università italiane”. Ma non sono gli scioperi a minare il funzionamento dell’università quanto invece la politica del governo.
I ricercatori, che sono circa un terzo del personale docente universitario, minacciano uno sciopero il prossimo anno, per protestare contro le modifiche introdotte dalla riforma Gelmini riguardanti proprio questo ruolo. Il DDL Gelmini elimina infatti la figura del ricercatore a tempo indeterminato, sostituendola con una tenure-track, una posizione tipica del sistema americano. Con un piccolo dettaglio di differenza: la versione italiana è tutta un’altra cosa ! L’uso a sproposito delle parole è uno degli elementi usati per creare confusione e coprire scelte sbagliate.
Infatti, quando si dichiara che si vogliono importare in Italia alcuni elementi propri del sistema americano, per rendere più competitivo il sistema, è più difficile controbattere, visto che la percezione comune è che il sistema americano sia di gran lunga migliore di quello italiano. Ed infatti il PD, quasi sempre a rimorchio, sembra essere favorevole a queste modifiche, sebbene con diverse sfumature. Il trucco è però molto banale.
La tenure track americana è un contratto che alla fine di un periodo di prova, in genere di cinque anni, prevede l’assunzione a tempo indeterminato se la valutazione è positiva. E’ quindi prevista da subito
la copertura finanziaria per l’eventuale posizione tenured.
Nella versione italiana invece, la conferma nel ruolo di associato avviene dopo il conseguimento di un giudizio di idoneità nazionale ed il superamento di un
concorso locale, senza prevedere dall’inizio la copertura finanziaria per il posto permanente: si tratta dunque di normali contratti a tempo determinato, seguiti da una eventuale assunzione come professori associati, nel caso in cui si ottenesse l’idoneità nazionale e vi siano le risorse per farlo.
Dunque mentre si progetta un nuovo sistema di reclutamento dei ricercatori, con contratti a termine che precedono la
possibile assunzione come professori associati, non si sa se ci saranno le risorse perché poi ci siano effettivamente i posti: in altre parole si tratta di uno specchietto per le allodole.
Inoltre si pone un altro problema che il DDL Gelmini non considera: che sarà degli altri 20 mila ricercatori che ci sono già nell’università? Con la messa in esaurimento del ruolo di ricercatore e l’istituzione di nuove
regole per l’accesso alla fascia degli associati, pensate per le cosiddette tenure-track, le prospettive di carriera per gli attuali ricercatori diventano incerte, oltre al fatto che il ruolo del ricercatore
viene ulteriormente marginalizzato con l’esclusione dagli organi accademici.
La soluzione a tutti questi problemi sarebbe stata invece molto semplice: mantenere la figura del ricercatore e rendere invece più seria e rigorosa la conferma in ruolo dopo i primi tre anni (come già dovrebbe essere). Questa sarebbe stata una vera tenure-track che non avrebbe creato problemi di sorta. Da questa analisi risulta evidente quale sia il disegno che sta dietro la riforma Gelmini: il ridimensionamento dell’università italiana pubblica, invece di “dare spazio ai giovani” e “limitare i potere dei baroni” – altri slogan usati a sproposito.
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