"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




domenica 25 luglio 2010

Riforma universitaria: fatti e misfatti




Il disegno di legge, cosiddetto Gelmini, sulla riforma dell’università è in dirittura di arrivo in Parlamento. Come abbiamo già messo in evidenza in questo blog, questa riforma non solo sta per assestare un colpo mortale all’università ed alla ricerca in Italia, ma sembra proprio essere un vero e proprio insulto alle nuove generazioni. Quelli che nell’università non sono ancora entrati e che probabilmente, a parte rare eccezioni, non ci entreranno mai. Una riforma del sistema universitario che non metta al centro il problema epocale a cui ci troviamo davanti oggi, è semplicemente una presa in giro. Per capire in cosa questo problema consista, mi focalizzo su due numeri: nei prossimi dieci anni circa il 50% del corpo docente andrà in pensione (con le regole attuali) mentre il numero di “precari” rappresenta più del 50% del personale permanente di cui una buona parte costituiscono la categoria dei docenti a contratto, sottopagati e assunti in maniera spesso arbitraria, [che sono quasi quanto i professori di ruolo]. Invece di guardarsi l’ombelico, le varie associazioni del personale docente dovrebbero riflettere su questi numeri che a breve produrranno sul sistema uno tsunami cogliendo il sistema impreparato. Non perché non si aveva la possibilità di conoscere in anticipo cosa sarebbe successo ma perché nessuno si è sforzato di avere uno sguardo in prospettiva sull’università basato sulla situazione reale e sui numeri complessivi, chi troppo preso dalla ricerca del proprio tornaconto chi incapace di guardare alla situazione in modo oggettivo, prescindendo da condizionamenti ideologici.

Il PD ha recentemente proposto di abbassare l’età della pensione per i docenti universitari a 65 anni, come avviene in tutti gli altri paesi Europei (con piccole variazioni, ma comunque generalmente non si va mai oltre il 70 anni come avviene da noi). C’è subito stato un “levar di scudi” ed alcuni hanno definito i responsabili del PD “fascisti” (e ce ne vuole di fantasia!) che vogliono rottamare gli anziani, senza comunque mai preoccuparsi di capire la situazione. Il Ministro Gelmini un bel mattino di luglio 2010 ha fatto sua questa idea (almeno in parte) affermando che i docenti che vanno in pensione oltre i 70 anni addirittura non rispettino la legge (!). A parte queste stravaganze, come per ogni problema legato alla riforma del sistema universitario, non c’è la bacchetta magica che possa risolvere la situazione. E’ del tutto condivisibile abbassare l’età pensionabile, visto che in Italia è la più alta del mondo per i docenti universitari come anche la loro età anagrafica. Chiunque si imbarchi in uno studio sistematico dell’età dei docenti universitari italiani, come abbiamo fatto Stefano Zapperi ed io vari anni anni fa, dovrebbe giungere ad analoghe conclusioni. Personalmente, invece di essere contento che alla fine la politica segua queste idee, ne sono preoccupato. Perché nella situazione attuale l’abbassamento dell’età pensionabile, senza l’adozione di altre misure, porterà ad uno squilibrio ancora maggiore con più del 60% dei docenti che andranno in pensione nel giro di pochi anni. E’ vero che ci vuole un ricambio come è vero che la maggior parte dei pensionamenti riguarda quei docenti che sono stati assunti con la famosa ope-legis del 1980, che hanno avuto una vita particolarmente facile se confrontata a quella delle generazioni successive, ma un ricambio di tale dimensioni deve essere ben definito, diluito nel tempo e soprattutto programmato.

Il problema principale è che non mi sembra proprio che le parole “assunzione di nuovo personale” siano contemplate dal Ministro Gelmini (e/o dal suo entourage di consiglieri ed esperti). Invece si parla di abolizione del ruolo di ricercatore (una delle poche valvole di sfogo per le nuove generazioni) e della sua sostituzione con la TTI (Tenure Track all’Italiana), si parla di blocco delle assunzioni, di blocco del turnover, di tagli al finanziamento. La mia generazione è quella a cui le parole “blocco” e “tagli” risuonano dentro la pancia. Quello di cui ci sarebbe bisogno da domani è un piano di assunzioni ben preciso per il prossimo decennio: almeno 2000 assunzioni all’anno solo per sostenere il sistema e non causare un ulteriore invecchiamento del personale docente che é già il più anziano al mondo.

Nelle intenzioni del Ministro Gelmini invece il pensionamento dei docenti è un’altra clava che viene usata in maniera gratuita, o forse in maniera strumentale per rabbonire una parte del mondo accademico (quello più giovane), ma senza un piano lungimirante. C’è bisogno di un’opposizione intransigente, con iniziative consone alla gravità della situazione, ma è necessario anche elaborare una riforma dell’università che abbia presupposti e prospettive completamente differenti da quelle del DDL Gelmini. Perché rifiutare una riforma insensata come quella della Gelmini è necessario, ma difendere l’esistente è impossibile. Per questo una riflessione seria e sistematica è quantomai opportuna in questo momento, anche se mi sembra difficile che la classe accademica, che ha messo del suo nel generare il disastro attuale, sia capace di auto-riformarsi. C’è bisogno di un coinvolgimento di tutti, compresi gli studenti e gli attuali precari ed i ricercatori che alla fine rappresentano il futuro del sistema universitario, ed anche quella parte dei sindacati che lavora con competenza nel mondo della ricerca, come la FLC-CGIL, per capire come agire.


(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano)

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