"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




venerdì 29 ottobre 2010

Confindustria ed università

Negli ultimi tempi il quotidiano di Confindustria, il Sole24Ore, ha prestato notevole attenzione alla vicende legate alla riforma universitaria e al ddl Gelmini. Il vicepresidente per l’Education della Confiundustria, Gianfelice Rocca, in un recente articolo su La Stampa ci informa che non si sono per il momento viste sul tavolo riforme migliori e che “ipotizzarle adesso significa in pratica bloccare l’unica riforma concretamente realizzabile. Una riforma che presenta forti punti di contatto anche con quella presentata dal Pd l’anno scorso, a partire dai meccanismi di reclutamento e governance“. Reclutamento e governance sono infatti due punti cardine dellariforma Gelmini. Per quanto riguarda il primo, abbiamo visto com’è andata. Nell’indigestione di tagli, si è alla fine capito che si è esagerato e dunque sono stati promessi 9000 posti di professore associato, soprattutto per tranquillizzare i ricercatori, o almeno per dividerli. Tentativo per il momento naufragato per mancanza del vil denaro. Ma anche tentativo maldestro, senza nessuna strategia, né nel breve ma neppure nel lungo periodo, ed improvvisato all’ultimo momento. Per quanto riguarda la governance, siamo sempre in attesa che qualcuno ci indichi un esempio sul pianeta Terra in cui le cose siano organizzate come previsto dal ddl Gelmini. A mio parere, aprire le porte dell’università a non meglio identificati “membri esterni” può portare solo guai e ad una situazione in cui alle solite beghe universitarie si sommeranno interferenze da parte del potere politico (ed anche di Confindustria). Il modello sono infatti le Asl o il CdA della RAI.

Ma i commenti che si leggono sul Sole24Ore sono sempre molto favorevoli al ddl Gelmini. Si sostiene ad esempio che l’approvazione del ddl sarebbe un primo passo per rendere competitivo il sistema universitario italiano. Non c’è dubbio che ci sia un ritardo italiano, testimoniato anche dalla bassa classifica dei primi atenei italiani (Bologna 179, La Sapienza 190, ecc. —). Ma il problema è: si risolvono questi guai con la riforma della governance  ipotizzata dal ddl Gelmini? Al lettore attento dovrebbe sorgere infatti un dubbio: e all’università della Confindustria come vanno le cose ? Perché quello è il perfetto esempio della governance tanto propugnata dal Dr. Rocca.

Infatti, nella Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli (LUISS) troviamo come presidente del consiglio di amministrazione Emma Marcegaglia, il direttore è Gianluigi Celli, e nel consiglio di amministrazione ci sono tra gli altri Francesco Gaetano Caltagirone, Luigi Abete e lo stesso Rocca. Con queste premesse e con le risorse che la Confindustria non mancherà di dare alla sua più prestigiosa università vista l’importanza strategica degli investimenti in formazione avanzata per accrescere la capacità di innovazione del Paese, ci si aspetterebbe dunque di trovare la LUISS nelle prime posizioni delle classifiche internazionali. Sfortunatamente non è questo il caso. Nella classifica generale del QS World University Ranking non compare tra le prime 600 posizioni. Non va meglio nel settore delle scienze sociali in cui non compare nelle prime 200 posizioni. Insomma, come esempio va piuttosto male. Forse le classifiche internazionali, come ho già avuto modo di notare non danno una informazione completa o almeno non del tutto affidabile. Potrebbe anche essere questo il caso, ma se così fosse, prima di sbandierare ogni volta queste classifiche, il quotidiano di Confindustria farebbe bene a farsi un esame di coscienza o almeno analizzare in dettaglio la situazione.

Vediamo allora come è andata la LUISS nella valutazione triennale della ricerca da parte del Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca (CIVR), l’unico sistematico esercizio di valutazione della qualità delle università italiane nella storia di questo paese. I risultati della LUISS sono piuttosto deludenti anche in questo caso. La classificazione è effettuata in base alla grandezza degli atenei e dunque in base ai “prodotti” (articoli, libri, ecc.) che l’ateneo ha inviato al comitato di valutazione.  Nell’area Scienze Giuridiche, tra le piccole strutture che sono 31, la LUISS si classifica 26esima. Nel raggruppamento Scienze economiche e statistiche al 16esimo posto (con 6 prodotti, nessuno dei quali eccellente). Infine nel raggruppamento Scienze politiche sociali al primo posto tra le piccole università, ma con un solo prodotto, ovvero un libro su “De Gaulle e il gollismo” diGaetano Quagliarello.

Possiamo quindi concludere che aprire i consigli di amministrazione agli imprenditori non risolve il problema della qualità delle università italiane. Tantomeno andare verso una privatizzazione del sistema, considerando anche il modesto piazzamento dell’altro esempio che abbiamo in Italia, l’università Bocconi. Insomma possiamo ragionevolmente concludere che non siano di certo questi gli esempi a cui ispirarsi. Ma perché quando si discute di riforma universitaria non si fa mai un esempio concreto ? Nel caso del ddGelmini la risposta è piuttosto semplice: non ce ne sono. Dunque prima di approvare una riforma universitaria ispirata a questi principi ed  invocata da Confindustria, nonché da una serie di bocconiani, in maniera aperta e senza ambiguità, una persona sensata dovrebbe rifletterci un po’ su. O no ?

3 commenti:

  1. Giustissime osservazioni.
    In più si potrebbe dire che le Università private certamente sperano nel DDl Gelmini per due ordini di motivi:

    - indebolendo le Università pubbliche, e proponendosi di ridurne il numero, contribuirà ad eliminare un po' di sgradita concorrenza;
    - porta ad aumentare le rette universitarie per le Università pubbliche; ci sarà allora maggior convenienza rispetto ad ora ad andare alle private;
    - apre la porta a maggiori finanziamenti da parte dello Stato (che al sistema pubblico li toglie) a favore delle Università private. Per fare solo un esempio, l'articolo 1 del DDL recita, tra l'altro: "Il Ministero, nel rispetto delle competenze delle regioni, provvede a valorizzare il merito, a rimuovere gli ostacoli all’istruzione universitaria e a garantire l’effettiva realizzazione del diritto allo studio. A tal fine, pone in essere specifici interventi per gli studenti capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, che intendano iscriversi alle LIBERE UNIVERSITà dello Stato per portare a termine il loro percorso formativo. ". Tra gli "addetti ai lavori", anche i sassi sanno che "libere università" significa Università private e/o confessionali.

    Ci diranno che occorre garantire libertà di scelta, e che questa scelta deve essere finanziata dallo Stato (come avviene già per le scuole o per la sanità). Intanto l'università statale viene a poco a poco dissanguata.

    C'è però un'altra forma già in atto di finanziamento pubblico delle Università private, che di solito viene ignorata: gran parte dei docenti di queste ultime è costituita da dipendenti delle Università pubbliche, che fanno il ... "doppio lavoro". Lo Stato li paga, poniamo, x=100. Poi, per fare le stesse cose ANCHE nelle private, da queste si accontentano di x=5, o anche meno.

    Perché? Perché lavorare nelle private significa intrattenere relazioni "bene", sia con i docenti che, magari, con i genitori dei rampolli che le frequentano. Ovvero aiuta a crearsi una buona rete di contatti "giusti", che è la cosa che in Italia serve davvero.

    Costoro, dunque, fanno concorrenza allo Stato con i soldi dello Stato.

    Una proposta concreta: perché nella legge non si inserisce il principio che, se il docente X vuole lavorare per l'Università privata San Vattelappesca, questa Università deve pagare alla pubblica presso la quale i docente è incardinato una quota pari a una percentuale (20%?) dello stipendio?

    Oppure, perché non si rende incompatibile la docenza "a tempo pieno" con l'insegnamento ANCHE nelle Università private?

    Perdonate il lungo commento; grazie mille, Francesco, per gli ottimi articoli.

    Massimiliano Tabusi
    Rete29Aprile
    www.rete29aprile.it

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  2. Dopo essre stato oggetto di varie vessazioni di vecchi baroni (ora in pensione) a causa della mia reputazione internazionale nella ricerca, vedo ora che le solite volpi di centro sinistra vogliono proprio mandare via me e la mia generazione a 65 anni: proprio noi che non siamo certo dei vecchi primitivi/baroni che vessano tutti Complimenti per la pensata. Chiudete la stalla dopo che i buoi sono scappati

    Lorenzo Magnani (Università di Pavia)

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  3. Bartolo Anglani - Università di Bari3 novembre 2010 alle ore 13:55

    Se si vuol capire perché il PD sia sceso al 24% e tenda a scendere ulteriormente proprio quando la destra è in crisi, basta guardare a ciò che i suoi dirigenti pensano dell'Università. Se i capi del PD hanno del mondo reale la stessa conoscenza che dimostrano di avere della scuola e dell'università, non c'è da stupirsi se non li votano gli operai, non li votano gli artigiani, non li votano i piccoli imprenditori... Che piccola gente ignorante di tutto! L'idea di 'rottamare' i docenti a 65 anni è la manifestazione più evidente di tale estraneità: Letta e Bersani forse non sanno che in Italia quei pochi che riescono a entrare nei ruoli universitari ci arrivano già grandi, la maggior parte a 40 o quasi. Se a 65 saranno sbattuti fuori, non avranno il tempo nemmeno di farsi una pensione dignitosa. Questo è solo un piccolo esempio della rozzezza e della demagogia di un partito che dovrebbe contrapporsi alla destra! in questi giorni i presidi stanno pregando i docenti andati in pensione di tornare a lavorare gratis. Ciò dimostra quanto sia falso sostenere che rottamare i docenti in servizio serve a fare spazio ai giovani. I vecchi vanno in pensione ma i concorsi per i giovani non sono banditi, sicché i vecchi appena usciti dalla porta rientrano dalla finestra, allettati dalla possibilità di passare qualche ora nelle aule universitarie invece di passeggiare per i giardinetti. E' ovvio che il docente che per passare il tempo si adatta a lavorare gratis non ci mette impegno e soprattutto non innova le sue competenze scientifiche, non fa acquistare libri o attrezzature, non concorre al miglioramento scientifico e didattico dell'università. Così l'università italiana scende sempre più in basso. Quando tento di raccontare ai miei colleghi stranieri che in Italia all'università si può lavorare senza esser pagati, e che i pensionati tornano a insegnare gratis e che i ricercatori tengono corsi che non sono obbligati a fare e per i quali non sono retribuiti, mi sento ridicolo. Nessuno capisce come possa esistere un sistema simile. I partiti dell'opposizione minacciano di far peggio dell'attuale governo. Io certo vorrei liberarmi della destra, ma poi quando penso che il govero del PD attuerebbe le sue proposte sull'università, provo uno scoramento terrificante. Ve l'immaginate Letta ministro dell'università? Ma forse sarebbe meglio suo zio!

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