"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




sabato 26 marzo 2011

Ci fidiamo dei bocconiani?


Scrive Roberto Perotti:  “La spesa italiana per studente equivalente a tempo pieno diventa 16,027 dollari, la più alta del mondo dopo Usa Svizzera e Svezia”. Aggiunge inoltre:  “Al di là della retorica, e con le solite dovute eccezioni che è sempre possibile citare, l’università italiana non ha un ruolo significativo nel panorama della ricerca mondiale”. Perché dunque finanziare un sistema improduttivo e costoso? Ma, in effetti, la prima domanda che ci dobbiamo porre è questa: queste affermazioni sono vere o sono considerate vere perché scritte da qualcuno che ha la targa di professore d’economia alla Bocconi?



Secondo Tito Boeri, anche lui economista e professore alla Bocconi, lo stato dell’università italiana è piuttosto disastrato, “lo documenta in modo inequivocabile un libro di Roberto Perotti, uno dei migliori economisti italiani, uscito in questi giorni per gli Struzzi dell’Einaudi (L’ Università truccata). Vi dirò subito, a scanso di equivoci, che sono collega e amico di Roberto. Ho anche avuto la fortuna di scrivere un libro con lui imparando quanto sia meticoloso e pignolo fin nei minimi dettagli. Quindi potete essere sicuri che i dati che sono contenuti nel volumetto sono stati attentamente verificati, uno per uno. E sono davvero impressionanti.” Possiamo davvero essere sicuri che sono proprio così precisi e verificati i dati di “uno dei migliori economisti italiani” così  “meticoloso e pignolo fin nei minimi dettagli” ? Ci fidiamo dei bocconiani ?

Tra gli altri, Giuseppe de Nicolao, professore di ingegneria all’università di Pavia,  si è andato a studiare i numeri. Come ci spiega in questa interessante discussione su “l’università ed il mondo esterno”, presentata nell’ambito di una giornata di studio sull’università e la ricerca organizzata dall’Idv con la rete29aprile e varie componenti di studenti, le cose sono diverse da come descritte da“uno dei migliori economisti italiani”. Ci spiega anzi come l’immagine deformata del sistema universitario che è stata costruita negli ultimi anni sia servita a motivare delle politiche ben precise.


De Nicolao mostra che, in base ai dati Ocse, nell’alta tecnologia, sono innanzitutto le imprese a spendere troppo poco in ricerca e sviluppo e ad impiegare un numero insufficiente di ricercatori: di conseguenza non è sorprendente constatare che in Italia vi sia un declino del settore. I dati Ocse dicono anche che nel pubblico, ovvero nell’università, si spende poco in ricerca e ci sono pochi ricercatori (metà di Francia e Spagna). Contando invece il numero di articoli pubblicati su riviste scientifiche “di qualità”, i dati Ocse dicono che l’Italia è l’ottava “potenza scientifica” mondialee mantiene la sua quota mondiale nonostante la crescita della Cina guadagnando addirittura terreno in Europa.

E allora perché le università pubbliche sono sempre in fondo alle classifiche? Quando le classifiche sono interpretate in maniera analitica, considerando i vari parametri in base ai quali sono state stilate, si trova un buon livello medio degli atenei italiani (il che significa che le eccellenze sono distribuite sul territorio) e con una buona reputazione scientifica. I punti deboli sono dovuti alle poche risorse: basso rapporto docenti/studenti e scarsa internazionalizzazione di docenti e studenti. E per curiosità, come la mettiamo con le  università private che, come la Bocconi, nelle classifiche non ci sono proprio?

Quanto si spende cumulativamente in formazione terziaria per singolo studente? A differenza di quello che afferma “uno dei migliori economisti italiani” per la spesa cumulativa per singolo studente nel corso dei suoi studi l’Italia si posiziona 16esima su 24 nazioni mentre per la spesa in percentuale sul Pil l’Italia si trova nella posizione 30-32 su 33 nazioni. Ma allora va tutto bene? Ovviamente no, e De Nicolao conclude con queste considerazioni:
  • È urgente mettere in atto politiche industriali per colmare il grave ritardo delle imprese sul fronte dell’innovazione.
  • La ricerca accademica regge la competizione internazionale: valorizzare il capitale scientifico dell’università e degli enti di ricerca per arrestare il declino economico della nazione.
  • Siamo il fanalino di coda nella spesa per formazione universitaria: più formazione per tutti come leva di progresso materiale e morale della società.
  • Se vogliamo che l’Italia non scenda in serie B o C, dobbiamo esigere un’università di serie A.
Ristabilire la realtà sull’università e la ricerca italiana è un’operazione necessaria che deve per forza passare per la critica alle false analisi che sono state martellate nella testa dell’opinione pubblica da un gruppo di economisti che riesce a scrivere senza vergognarsi che nell’università  ideale per attrarre bravi studenti, si comincerà dall’offrire stanze singole nelle residenze studentesche, poi la Tv via cavo gratuita, poi la Jacuzzi privata e l’abbonamento annuale alla palestra e così via… Tutte cose che ai puristi dell’accademia possono apparire in stridente contrasto con l’ideale dell’amore disinteressato del sapere, ma che fanno parte della realtà umana”. E se questi sono i “migliori” tra gli economisti, figuriamoci gli altri.

Ne approfitto per segnalarvi i dati contenuti ne L’Italia che affonda di Francesco Coniglione.


(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano)

venerdì 11 marzo 2011

Anticorpi assuefatti


C’è quasi sempre da rallegrarsi quando l’Italia viene messa al centro dell’attenzione da una rivista prestigiosa come Nature. Il problema sta nel “quasi”. L’editoriale del 10 marzo 2011 si intitolaDiario di uno scandalo e prende le mosse da questa considerazione: “Come un organismo viene colpito da una particolare mutazione genetica dipende, come ogni genetista sa, dalla struttura genetica dell’organismo. Sebbene l’introduzione di una mutazione d’obesità in un ceppo di topo può produrre un animale grasso con il diabete, la stessa mutazione in un ceppo di topi di leggermente diverso background genetico può creare un animale grasso, ma altrimenti sano. Allo stesso modo, gli effetti di un grido di dolore accademico sembrano dipendere dallo sfondo sociale di una comunità. Come spiegare altrimenti i risultati contrastanti di due rivelazioni accademiche: la vicenda di plagio che si è consumata in Germania per due settimane fino a quando la disapprovazione accademica ha costretto alle dimissioni il ministro della Difesa, Karl-Theodor zu Guttenberg, il 1 ° marzo, ed una analoga esposizione di illeciti da parte del ministro italiano dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, nel 2008, che ebbe impatto zero”.
In poche righe l’articolista centra un punto importante: l’assenza o quantomeno l’assuefazione degli anticorpi nel sistema italiano. Le due vicende sono diverse ma hanno un punto in comune che riguarda la credibilità delle persone scelte ad amministrare “il bene comune”. Il ministro tedesco è stato accusato di aver plagiato la tesi di dottorato e a fronte di una scomposta difesa del premier (“ho scelto un politico, non un accademico”) sono state raccolte diecimila firme di dottori di ricerca tedeschi che hanno deplorato la “beffa” per  la decenza, onore e responsabilità del sistema accademico. Schiacciato da questo attacco, Guttenberg si è infine dimesso.

Il ministro Gelmini, una volta laureata in legge, come Guttenberg ha preso delle  scorciatoie nelle procedure accademiche (in senso più lato). Ha infatti superato l’esame di stato per l’accesso all’avvocatura presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria nel 2002, dopo aver svolto il primo anno di praticantato a Brescia e il secondo sempre a Reggio. Tale spostamento, come spiega la stessa Gelmini, fu motivato dal fatto che a Reggio Calabria c’era una percentuale di esami superati di circa il 90% contro una percentuale di circa il 30% delle città del nord Italia. Dopo che la stampa ha rivelato questa vicenda, la comunità accademica italiana ha chiesto le dimissioni della Gelmini senza alcun risultato. La vicenda ha lasciato “l‘ironia di avere un ministro dell’università che allegramente ammette di aver eluso le regole accademiche”, ironia che “è stata colta dalla comunità”.

Queste considerazioni mi fanno venire in mente quello che scriveva mio padre Paolo nel 2002:“Spesso, anche se non sempre, gli uomini politici che raggiungono il vertice del potere hanno pochi scrupoli e molto cinismo. Le moderne democrazie parlamentari mirano appunto ad impedire che quella mancanza di scrupoli e quel cinismo procurino gravi danni alla collettività. Una metafora tratta dalla medicina può chiarire le idee: la democrazia, in tutte le sue componenti, fra cui la giustizia e la libertà d’informazione e di espressione, rappresenta un sistema di anticorpi. Se questi anticorpi non funzionano, compaiono i sintomi di quella terribile malattia chiamata Aids, l’immunodeficienza acquisita, contraendo la quale gli agenti patogeni hanno via libera e possono portare alla morte”. Gli anticorpi di questo paese si sono assuefatti e non reagiscono più. Dopo vent’anni è ora che si risveglino. Che sia la manifestazione in difesa della Costituzione un segnale definitivo? In quest’occasione vorrei ricordare mio padre con questo video, tratto dallamanifestazione al Palavobis, in difesa della legalità e della democrazia, del 2002.







(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano online)

martedì 8 marzo 2011

Merito e regole

Roger Abramavel ha lavorato per 35 anni per la società di consulenza  McKinsey & Company. Tra le altre cariche che ora ricopre, siede nel consiglio di amministrazione dell’Istituto Italiano di Tecnologia. L’altro giorno, in un’intervista al Corriere della Sera, ci ha spiegato il suo modello per la ricerca. Vediamo cosa ci racconta il signor consulente a proposito del monito del presidente Napolitano sui tagli indiscriminati alla ricerca (non è mai troppo tardi per fare moniti):  “C’è una grande crisi e si taglia dappertutto. Tagli indiscriminati… messaggio giusto. Sbagliata l’interpretazione secondo cui lo Stato deve continuare a spendere a pioggia nei grandi laboratori pubblici, nelle università: questo è un grave errore perché purtroppo oggi questa spesa non dà ritorno. Non abbiamo università tra le top 100 e questi laboratori non hanno dato grandi ritorni.”

In poche righe troviamo un’incredibile montagna di banalità. In vari paesi, a partire dagli Stati Uniti, Francia e Germania, sono stati erogati finanziamenti straordinari per stimolare la ricerca, che è vista come uno strumento fondamentale per rilanciare l’economia e non come un peso morto dove buttare risorse. Chi ha poi affermato che lo Stato debba continuare a spendere a pioggia? Mai nessuno, neppure il più somaro degli universitari, direbbe qualcosa del genere apertamente, casomai nell’ombra e nelle pieghe del sistema, cercherebbe di afferrare un po’ di risorse.

Lo Stato deve investire con criterio ed oculatezza nella ricerca e nelle università, perché ricerca ed università fanno parte del sistema delle infrastrutture del paese. In un paese serio, bisognerebbe varare una riforma che non permetta gli abusi che ci sono sicuramente stati nel passato e che cerchi di valorizzare quanto di buono esiste nel sistema universitario e della ricerca. Se questo non è avvenuto, per responsabilità delle classi politiche attuale e passate, ma anche dell’attuale classe accademica che troppo spesso ha approfittato della situazione di disinteresse e ignoranza della controparte politica, è necessario porre dei correttivi allo stato attuale. In altre parole, bisognerebbe fare un riforma che stimoli la “meritocrazia”: ma non era questo l’obiettivo del ministro Gelmini? Allora perché ha fatto la famosa “riforma epocale”? Forse per prenderci in giro? E il signor consulente, che è anche consulente del ministro, è della partita anche lui o passava per caso?

Dell’interpretazione delle classifiche internazionali abbiamo già discusso:  qui ricordiamo che queste classifiche devono essere capite e non citate quando fa comodo nascondendo l’assenza di qualsiasi università privata italiana. Ma cosa vuole dire che “questa spesa non dà ritorno”?  Cosa è nella fantasia del signor consulente Abramavel, il ritorno della ricerca di base prodotta dai grandi laboratori pubblici? Cosa ne sa il signor consulente della ricerca di base? Perché il discorso è molto semplice: i grandi laboratori pubblici esistono perché c’è uno Stato che li finanzia, dal momento che i privati in Italia non fanno neppure laboratori medi, piccoli o microscopici. Che si fa, si abolisce la ricerca?

Ma certo che no: il signor consulente Abramavel ha le idee chiare in proposito.“Un esempio positivo è l’Iit (Italian Institute of Technology). Creato 5 anni fa, ha 800 ricercatori eccellenti di cui un terzo cervelli rimpatriati, un terzo cervelli stranieri e un terzo cervelli italiani. Ha rilanciato e stiamo andando benissimo perché: meritocrazia, meritocrazia, meritocrazia. Selezionare in maniera meritocratica e valutare. Cosa che questi ricercatori delle nostre università che sono andati sui tetti a lamentarsi pure avendo un posto fisso non vogliono riconoscere.”

Altre poche parole, altra montagna di falsità. Che il signor consulente citi l’Iit, di cui lui è parte in causa essendo parte del consiglio di amministrazione, darebbe già un fastidioso senso di conflitto di interessi (per chi ha ancora una sensibilità al tema in questo Paese) se fosse stato “intervistato” nel suo ruolo di consulente del ministro o di esperto di qualcosa (cosa?). Se invece il suo ruolo fosse quello di membro del CdA dell’Iit, allora più che “intervista” si potrebbe chiamare spot promozionale (ma di quelli ingannevoli). Ma è interessante l’esempio dell’Iit, sulle cui performance abbiamo già discusso. Ricordiamo il famoso rapporto di valutazione indipendente perso nei meandri della burocrazia (forse il signor consulente Abramavel, così appassionato di meritocrazia, meritocrazia, meritocrazia, lo ha nel suo cassetto?). L’Iit, con il 10% del personale del Cnr, ha un budget statale annuo di 100 milioni di euro (il 20% di quello del Cnr), ricava da progetti il 10% di questo (il Cnr quasi il 100% del suo budget), ha prodotto nel 2009 circa 200 pubblicazioni censite (il 4% di quelle del Cnr per lo stesso periodo) e si trova alla posizione 2.823 della classifica Scimago (il Cnr al 23esimo posto). E questo sarebbe l’esempio?

I ricercatori che sono andati sui tetti avevano, e hanno, tutte le ragioni per contestare una riforma vergognosa fatta da persone che hanno competenze del livello del signor consulente Abramavel. E piano piano (troppo piano) anche altre componenti del corpo docente universitario si stanno rendendo conto di quali siano le vere intenzioni di questo governo circa il futuro dell’università e della ricerca.

(pubblicato su Il Fatto Quotidiano online

domenica 6 marzo 2011

Discussione sullo stato dell'università e della ricerca in Italia

L'IDV ha organizzato una giornata di discussione sullo stato dell'università e della ricerca in Italia. Qui sotto la relazione di FSL (20 minuti....)



martedì 1 marzo 2011

Le luci della ricerca



Per Adam Smith, uno dei padri della scienza economica moderna, il segreto della ricchezza delle nazioni risiede nella divisione del lavoro. Quando le persone e le industrie si specializzano in differenti attività, l’efficienza economica aumenta. Ogni paese, specializzandosi in un certo settore produttivo aumenta il suo vantaggio nella competizione globale occupando dunque una nicchia produttiva e sostenendo lo sviluppo delle capacità particolari e possibilmente uniche in quel settore specifico.

Come messo in evidenza recentemente da un gruppo misto di economisti e fisici, studiando la quantità e la qualità dei prodotti di ogni paese nella rete economica globale, si osserva qualcosa che non sembra semplicemente riconducibile a questa visione. In particolare, si nota che i paesi che producono i prodotti tecnologicamente più avanzati, sono anche quei paesi che producono più prodotti in genere, ovvero che hanno una maggiore diversificazione sul mercato. Invece, i paesi che producono pochi prodotti in genere producono beni prodotti anche da tanti altri paesi.

Questa prospettiva suggerisce che lo sviluppo di imprese nella competzione globale cresca con l’aumento del numero di capacità e con la complessità che emerge dall’interazione tra di loro. Per questo motivo una risorsa fondamentale di ogni paese è determinata dalla complessità della sua struttura produttiva e lo sforzo per lo sviluppo dovrebbe essere indirizzato a generare le condizioni che permettono l’emergenza della complessità per generare la crescita e la prosperità.

In altre parole, si suppone che la “validità” di un paese nella competizione globale sia legata al suo sviluppo infrastrutturale, ovvero al numero di capabilities (capacità) di cui questo paese è dotato. Per capabilities s’intende l’insieme delle capacità produttive, delle materie prime, del livello di istruzione medio, della qualità dell’istruzione avanzata e del sistema di ricerca, delle politiche del lavoro, della capacità di trasferimento tecnologico dall’accademia al sistema produttivo, del livello di walfare sociale, di una burocrazia efficiente e di tutto ciò che concorre a creare un ambiente adatto allo sviluppo economico. I beni si possono importare o esportare, mentre queste “capacità” sono intrinseche ad ogni paese.

Un paese che ha più capabilities ha anche più potenzialità di produrre prodotti nuovi e competitivi sul mercato per un semplice motivo combinatorio: la produzione di un nuovo prodotto avviene dalla composizione di alcune capabilities. Più numerose sono queste e più sono le combinazioni potenziali e dunque i nuovi possibili prodotti. Inoltre quante più capabilities un paese ha già a disposizione, tanto più l’aggiunta di una nuova capability, per esempio proveniente da una scoperta in ricerca fondamentale, può dar lungo, per lo stesso argomento combinatorio, allo sviluppo di nuovi prodotti validi sul mercato. Per questo motivo, un paese povero che ha a disposizione poche capabilities si trova non solo nella drammatica situazione di produrre pochi prodotti di basso valore, ma di non poter aumentare significativamente le proprie potenzialità produttive aggiungendo una nuova capability.

Dunque un paese per essere competitivo deve accumulare un grande numero di capabilities in modo tale da permettere, attraverso l’assemblaggio di queste, la produzione di tanti prodotti diversi, di cui alcuni estremamente innovativi e competitivi. La ricerca, applicata e di base, accende dunque delle capacità potenziali, che possono diventare effettivamente utili e sfruttabili da un punto di vista economico quando avviene lo sviluppo d’innovazioni. Possiamo immaginare ogni capacità potenziale come una parola e la capacità effettiva di generare innovazione quando una particolare serie di parole viene messa insieme per formare frasi complesse (prodotti innovativi). Se alcune parole sono già presenti, il paese ha una certa flessibilità e facilità a comprendere, adeguarsi e sfruttare un’innovazione. Invece, se troppe poche parole sono presenti, il paese rimane escluso dallo sviluppo.

L’informazione più interessante da questo tipo di analisi è che più lampadine sono accese e più aumentano le potenzialità per fare, o quantomeno per seguire, le innovazioni tecnologiche. Dunque in questa prospettiva, la ricerca rappresenta un’infrastruttura fondamentale del paese, un po’ come un moderno sistema di trasporti: è importante avere una rete di trasporto efficiente, al di là di quello che oggi o domani pensiamo di fare trasportando persone o merci su e giù per il Paese. Lo studio quantitativo della rete economica globale mostra dunque che aveva ragione Bacone quando scrisse che “lo scopo della scienza è di dare opere e di costruire la parte attiva del sapere, ma occorre aspettare il tempo delle messe, per non mieter il muschio e la biada ancora in erba”, e che sia invece miope supporre, come spesso succede, che il miglior modo di raggiungere l’obiettivo della crescita sia quello di finanziare solo quei progetti in grado di portare ad applicazioni pratiche nel giro di due o tre anni, il che, alla fin fine, significa solo riempirsi la bocca con parole altisonanti ma che in pratica rimangono piuttosto vuote.

(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano online)