Secondo Tito Boeri, anche lui economista e professore alla Bocconi, lo stato dell’università italiana è piuttosto disastrato, “lo documenta in modo inequivocabile un libro di Roberto Perotti, uno dei migliori economisti italiani, uscito in questi giorni per gli Struzzi dell’Einaudi (L’ Università truccata). Vi dirò subito, a scanso di equivoci, che sono collega e amico di Roberto. Ho anche avuto la fortuna di scrivere un libro con lui imparando quanto sia meticoloso e pignolo fin nei minimi dettagli. Quindi potete essere sicuri che i dati che sono contenuti nel volumetto sono stati attentamente verificati, uno per uno. E sono davvero impressionanti.” Possiamo davvero essere sicuri che sono proprio così precisi e verificati i dati di “uno dei migliori economisti italiani” così “meticoloso e pignolo fin nei minimi dettagli” ? Ci fidiamo dei bocconiani ?
Tra gli altri, Giuseppe de Nicolao, professore di ingegneria all’università di Pavia, si è andato a studiare i numeri. Come ci spiega in questa interessante discussione su “l’università ed il mondo esterno”, presentata nell’ambito di una giornata di studio sull’università e la ricerca organizzata dall’Idv con la rete29aprile e varie componenti di studenti, le cose sono diverse da come descritte da“uno dei migliori economisti italiani”. Ci spiega anzi come l’immagine deformata del sistema universitario che è stata costruita negli ultimi anni sia servita a motivare delle politiche ben precise.
De Nicolao mostra che, in base ai dati Ocse, nell’alta tecnologia, sono innanzitutto le imprese a spendere troppo poco in ricerca e sviluppo e ad impiegare un numero insufficiente di ricercatori: di conseguenza non è sorprendente constatare che in Italia vi sia un declino del settore. I dati Ocse dicono anche che nel pubblico, ovvero nell’università, si spende poco in ricerca e ci sono pochi ricercatori (metà di Francia e Spagna). Contando invece il numero di articoli pubblicati su riviste scientifiche “di qualità”, i dati Ocse dicono che l’Italia è l’ottava “potenza scientifica” mondialee mantiene la sua quota mondiale nonostante la crescita della Cina guadagnando addirittura terreno in Europa.
E allora perché le università pubbliche sono sempre in fondo alle classifiche? Quando le classifiche sono interpretate in maniera analitica, considerando i vari parametri in base ai quali sono state stilate, si trova un buon livello medio degli atenei italiani (il che significa che le eccellenze sono distribuite sul territorio) e con una buona reputazione scientifica. I punti deboli sono dovuti alle poche risorse: basso rapporto docenti/studenti e scarsa internazionalizzazione di docenti e studenti. E per curiosità, come la mettiamo con le università private che, come la Bocconi, nelle classifiche non ci sono proprio?
Quanto si spende cumulativamente in formazione terziaria per singolo studente? A differenza di quello che afferma “uno dei migliori economisti italiani” per la spesa cumulativa per singolo studente nel corso dei suoi studi l’Italia si posiziona 16esima su 24 nazioni mentre per la spesa in percentuale sul Pil l’Italia si trova nella posizione 30-32 su 33 nazioni. Ma allora va tutto bene? Ovviamente no, e De Nicolao conclude con queste considerazioni:
- È urgente mettere in atto politiche industriali per colmare il grave ritardo delle imprese sul fronte dell’innovazione.
- La ricerca accademica regge la competizione internazionale: valorizzare il capitale scientifico dell’università e degli enti di ricerca per arrestare il declino economico della nazione.
- Siamo il fanalino di coda nella spesa per formazione universitaria: più formazione per tutti come leva di progresso materiale e morale della società.
- Se vogliamo che l’Italia non scenda in serie B o C, dobbiamo esigere un’università di serie A.
Ne approfitto per segnalarvi i dati contenuti ne L’Italia che affonda di Francesco Coniglione.
(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano)