"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




martedì 1 marzo 2011

Le luci della ricerca



Per Adam Smith, uno dei padri della scienza economica moderna, il segreto della ricchezza delle nazioni risiede nella divisione del lavoro. Quando le persone e le industrie si specializzano in differenti attività, l’efficienza economica aumenta. Ogni paese, specializzandosi in un certo settore produttivo aumenta il suo vantaggio nella competizione globale occupando dunque una nicchia produttiva e sostenendo lo sviluppo delle capacità particolari e possibilmente uniche in quel settore specifico.

Come messo in evidenza recentemente da un gruppo misto di economisti e fisici, studiando la quantità e la qualità dei prodotti di ogni paese nella rete economica globale, si osserva qualcosa che non sembra semplicemente riconducibile a questa visione. In particolare, si nota che i paesi che producono i prodotti tecnologicamente più avanzati, sono anche quei paesi che producono più prodotti in genere, ovvero che hanno una maggiore diversificazione sul mercato. Invece, i paesi che producono pochi prodotti in genere producono beni prodotti anche da tanti altri paesi.

Questa prospettiva suggerisce che lo sviluppo di imprese nella competzione globale cresca con l’aumento del numero di capacità e con la complessità che emerge dall’interazione tra di loro. Per questo motivo una risorsa fondamentale di ogni paese è determinata dalla complessità della sua struttura produttiva e lo sforzo per lo sviluppo dovrebbe essere indirizzato a generare le condizioni che permettono l’emergenza della complessità per generare la crescita e la prosperità.

In altre parole, si suppone che la “validità” di un paese nella competizione globale sia legata al suo sviluppo infrastrutturale, ovvero al numero di capabilities (capacità) di cui questo paese è dotato. Per capabilities s’intende l’insieme delle capacità produttive, delle materie prime, del livello di istruzione medio, della qualità dell’istruzione avanzata e del sistema di ricerca, delle politiche del lavoro, della capacità di trasferimento tecnologico dall’accademia al sistema produttivo, del livello di walfare sociale, di una burocrazia efficiente e di tutto ciò che concorre a creare un ambiente adatto allo sviluppo economico. I beni si possono importare o esportare, mentre queste “capacità” sono intrinseche ad ogni paese.

Un paese che ha più capabilities ha anche più potenzialità di produrre prodotti nuovi e competitivi sul mercato per un semplice motivo combinatorio: la produzione di un nuovo prodotto avviene dalla composizione di alcune capabilities. Più numerose sono queste e più sono le combinazioni potenziali e dunque i nuovi possibili prodotti. Inoltre quante più capabilities un paese ha già a disposizione, tanto più l’aggiunta di una nuova capability, per esempio proveniente da una scoperta in ricerca fondamentale, può dar lungo, per lo stesso argomento combinatorio, allo sviluppo di nuovi prodotti validi sul mercato. Per questo motivo, un paese povero che ha a disposizione poche capabilities si trova non solo nella drammatica situazione di produrre pochi prodotti di basso valore, ma di non poter aumentare significativamente le proprie potenzialità produttive aggiungendo una nuova capability.

Dunque un paese per essere competitivo deve accumulare un grande numero di capabilities in modo tale da permettere, attraverso l’assemblaggio di queste, la produzione di tanti prodotti diversi, di cui alcuni estremamente innovativi e competitivi. La ricerca, applicata e di base, accende dunque delle capacità potenziali, che possono diventare effettivamente utili e sfruttabili da un punto di vista economico quando avviene lo sviluppo d’innovazioni. Possiamo immaginare ogni capacità potenziale come una parola e la capacità effettiva di generare innovazione quando una particolare serie di parole viene messa insieme per formare frasi complesse (prodotti innovativi). Se alcune parole sono già presenti, il paese ha una certa flessibilità e facilità a comprendere, adeguarsi e sfruttare un’innovazione. Invece, se troppe poche parole sono presenti, il paese rimane escluso dallo sviluppo.

L’informazione più interessante da questo tipo di analisi è che più lampadine sono accese e più aumentano le potenzialità per fare, o quantomeno per seguire, le innovazioni tecnologiche. Dunque in questa prospettiva, la ricerca rappresenta un’infrastruttura fondamentale del paese, un po’ come un moderno sistema di trasporti: è importante avere una rete di trasporto efficiente, al di là di quello che oggi o domani pensiamo di fare trasportando persone o merci su e giù per il Paese. Lo studio quantitativo della rete economica globale mostra dunque che aveva ragione Bacone quando scrisse che “lo scopo della scienza è di dare opere e di costruire la parte attiva del sapere, ma occorre aspettare il tempo delle messe, per non mieter il muschio e la biada ancora in erba”, e che sia invece miope supporre, come spesso succede, che il miglior modo di raggiungere l’obiettivo della crescita sia quello di finanziare solo quei progetti in grado di portare ad applicazioni pratiche nel giro di due o tre anni, il che, alla fin fine, significa solo riempirsi la bocca con parole altisonanti ma che in pratica rimangono piuttosto vuote.

(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano online)

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