"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




venerdì 29 luglio 2011

Numeri e percezione dell’università italiana

Ho avuto modo di commentare sulla perseveranza di un certo gruppo d’economistinell’affermare che l’università italiana non sia riformabile o addirittura che  “la ricerca che oggi produce in media la miglior università italiana è del livello di quella che Harvard – la frontiera odierna – produceva tra il 1950 e il 1970” (?). Secondo loro, non solo la ricerca italiana è di basso livello ma la corruzione è dilagante e i costi esorbitanti. D’altra parte, molti studi (vedi qui e qui) mostrano che la ricerca scientifica italiana non è affatto di basso livello, ma che in termini qualità e quantità è complessivamente entro le prime sette posizioni al mondo. Questo avviene in una situazione in cui le risorse che lo Stato investe nell’istruzione università e nella ricerca sono certamente molto minori della gran parte dei paesi Ocse e di sicuro di quelli che ci prendono nelle classifiche.

Perché dunque quegli economisti, che pure avrebbero tutto l’interesse a dimostrare in maniera quantitativa le loro affermazioni per non passare per dei superficiali motivati da altri interessi che non sia il bene comune di avere un sistema universitario e della ricerca che funzioni meglio di quello attuale, hanno una visione così caricaturale del sistema italiano? Non sarà che parlano, oltretutto in modo strumentale, solo di quel poco che conoscono?  Siamo dunque andati a cercare dei numeri che in qualche modo possono illustrare direttamente la “qualità” d’alcune discipline in Italia. Abbiamo trovato due ricerche: la prima riguarda i docenti di fisica e la seconda i docenti di economia. E’ interessante vedere cosa s’impara da questi dati.

La prima ricerca è stata effettuata da Paolo Rossi, fisico dell’Università di Pisa, che ha raccolto gliH-index dei fisici italiani (professori ordinari, associati e ricercatori: circa 3000 unità al 2007). Ricordiamo che un ricercatore ha H-index pari, ad esempio, a 10 se le sue 10 pubblicazioni più citate hanno ognuna 10 o più citazioni e le altre pubblicazioni hanno un minor numero di citazioni.  L’H-index si costruisce sulle pubblicazioni presenti su riviste censite da banche dati certificate  e fornisce sicuramente un’approssimata ed incompleta misura della qualità della produzione scientifica d’un ricercatore: rimando qui per una discussione critica di questo indicatore bibliometrico.

Dallo studio di Rossi risulta che il 50% dei professori associati e dei ricercatori in fisica, che hanno delle distribuzioni quasi identiche, ha un indice H superiore a 10, mentre il 50% degli  ordinari ha un indice H superiore a 15. Quest’ultima differenza è naturale in quanto l’H-index cresce con il tempo, e dunque va diviso per gli anni di carriera. D’altra parte, visto che in media i ricercatori sono più giovani dei professori associati, è anche possibile concludere che siano più produttivi. Inoltre una buona parte (circa il 60%) degli associati e dei ricercatori ha un indice H tra 5 e 15, mentre il 50% degli ordinari ha un indice H compreso tra 10 e 20. Vi è poi una percentuale più piccola di docenti che hanno un alto indice H, con valori che possono superare 30 o 40: è ben noto  che la fisica italiana brilli a livello internazionale.

La seconda ricerca è stata effettuata da Cristina Marcuzzo e Giulia Zacchia, economisti dell’università “Sapienza” di Roma, che hanno utilizzato la banca dati Econlit, che censisce pubblicazioni rilevanti nel campo dell’economia. Uno dei dati che più risaltano da quest’analisi è che ben il 16% degli economisti accademici ha zero records su Econlit. E’ ovvio che avere zero pubblicazioni implica che almeno la stessa frazione di docenti abbia ricevuto zero citazioni e zero H index: probabilmente questo elevato numero di zeri riflette il fatto che molti docenti s’occupano d’altro.  Le due autrici hanno poi esaminato quanti dei docenti in ruolo passerebbero gli “indicatori minimali di qualificazione scientifica” del Consiglio Universitario Nazionale (Cun) per l’accesso ai tre livelli della carriera universitaria (e sarebbe interessante ripetere questo esercizio per i criteri di valutazione emanati dall’Anvur):

“Il nostro esercizio mostra che le asticelle da superare poste dal Cun sono molto al di sopra del livello medio della produzione degli economisti ….. Solo il 27,4 per cento degli ordinari risulta avere dieci pubblicazioni censite in Econlit negli ultimi otto anni … Per gli associati, la prima soglia nel proprio ruolo è superata dal 16,2 per cento dei confermati…
Nel caso dei ricercatori, la situazione è migliore: il 65,8 per cento soddisfa il criterio previsto per quella fascia; tuttavia, meno del 10 per cento ha le caratteristiche per diventare associato, e un gruppo piccolo ha anche “i numeri” per diventare ordinario”. Concludono il loro studio sottolineando che “non si può non tener conto che i criteri proposti risultano soddisfatti solo da una piccola percentuale degli economisti accademici italiani, con la sola eccezione forse deiricercatori”. 



Questa conclusione è confermata da un altro studio in cui è stato misurato l’indice H per i 696 ordinari delle discipline economiche con la conclusione che: “La distribuzione è fortemente asimmetrica, con oltre il 40 per cento dei docenti con valori di H compresi tra 0 e 2, e solo il 5 per cento con 
 superiori a 16.” Insomma, c’è un’evidente differenza rispetto al caso dei fisici.  Se è naturale (vedi qui) che ci siano differenze nelle modalità di pubblicazione e citazione tra kdiversi campi campi, se è vero che ci possono essere nei campi umanistici delle dinamiche sociologiche molto rilevanti che alterano il significato degli indici bibliometrici, è piuttosto anomalo non solo il basso indice H della metà dei professori ordinari di economia (minore o uguale a 2!) ma anche il fatto che una buona percentuale dei docenti delle tre fasce non ha proprio nessuna pubblicazione su banche dati internazionali. Che sia allora questa differenza all’origine della diversa percezione della qualità della ricerca nell’università italiana? Se lo fosse, saremmo comunque sorpresi dalla superficialità con cui è stata fatta di tutta l’erba un fascio e dalla determinazione con cui è stata, ed è tuttora, denigrata tutta la ricerca italiana. Se non lo fosse: peggio ancora.

2 commenti:

  1. Faccio una domanda banale. Le pubblicazioni scientifiche di cui parla l'articolo de "Il Fatto" sono in inglese? Perché in Italia, l'apprendimento di una seconda lingua a livelli soddisfacenti è purtroppo carente anche tra i professionisti di diversi settori.

    RispondiElimina
  2. un parte sono in inglese ed un'altra sono in italiano, ma è vero che quelle in italiano sono sottostimate. consiglio la lettura dell'articolo di marcuzzo e zacchia per una discussione dettagliata del problema

    RispondiElimina