"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




venerdì 12 febbraio 2010

La ricerca senza futuro (Recensione su Europa)


Le critiche e i suggerimenti sull’università di due cervelli “non in fuga”

I ricercatori non crescono sugli alberi. Ma, dal momento che l’albero della cuccagna non esiste, la metafora va oltre la fine di Pinocchio nel paese dei balocchi, vittima del gatto e della volpe. Perché dipende dove si piantano gli alberi della ricerca: in Italia – si sa – il terreno è sempre più arido. E così, mentre all’estero la ricerca è feconda, il Belpaese resta al palo, pur registrando le sue eccellenze in ambito formativo. Una china preoccupante del settore – e non è certo una novità –, con il suo progressivo slittamento verso una irreversibile perdita di qualità e competitività complessiva, aggravata da certa politica dello struzzo dalle decisioni legislative sbagliate, segnate da mera somministrazione di placebo, in luogo di un incisivo e organico progetto culturale, sostenuto da imprenscindibili e adeguati finanziamenti. Risultato, un processo di ricerca-innovazione- competitività in evidente affanno.
A fotografare questa situazione, Francesco Sylos Labini, fisico in forze all’Istituto dei sistemi complessi del Cnr, presso il centro Enrico Fermi di Roma e Stefano Zapperi, fisico ricercatore presso il Cnr di Modena, nel libro edito da Laterza, intitolato appunto I ricercatori non crescono sugli alberi.
Ma, cosa può aggiungere di nuovo questo contributo, dal momento che negli ultimi anni anche le più prestigiose riviste scientifiche internazionali hanno lanciato l’Sos sulla scienza italiana? E con relativo (e noto) cahier de doléances: lo stato sempre più critico della nostra ricerca, la sua gestione senza prospettive, il processo di marginalizzazione e provincializzazione della nostra università, la cronica mancanza di finanziamenti e la loro immancabile riduzione da parte del governo di turno, con tanto di sgomento e preoccupazione, pensando al glorioso passato scientifico e ai contributi di qualità, circoscritti sì ad alcuni campi, ma tuttora visibili.

Ma, ci chiedevamo: perché questo saggio? Intanto perché a scriverlo sono due ottimi scienziati, peraltro «due cervelli non in fuga» – dato questo, tutt’altro che trascurabile –, entrambi rientrati in Italia dopo un periodo all’estero, dunque insoddisfatti, anzi indignati della situazione di casa nostra, ma per nulla disposti ‹‹a continuare a lamentarci del sistema diventandone piano piano parte integrante, adeguandoci infine ai suoi meccanismi››. Ecco, soprattutto, Sylos Labini e Zapperi non si piangono addosso: nello snocciolare i vizi (tanti) e le virtù (poche) della ricerca e dell’educazione terziaria in Italia negli ultimi anni, denunciano quello che vivono ogni giorno sulla propria pelle, ‹‹la refrattarietà del sistema ad incoraggiare la ricerca di qualità››, puntando subito sul propositivo, suggerendo cosa fare per uscire dalle secche della crisi.
A iniziare dai mali strutturali: fondi magri per la ricerca e progressivo invecchiamento delle risorse umane. Sì, perché se la ricerca e l’innovazione sono le chiavi della competitività, è chiaro che bisognerebbe disporre di cospicue risorse, pubbliche e private: qui spunta l’1,6 per cento, l’ormai famigerata percentuale – i due ricercatori ne danno conto nell’emblematico paragrafo intitolato “La solita litania” – che va alla spesa pubblica per l’istruzione universitaria, calcolata su quella totale, e che secondo i parametri della Strategia di Lisbona dovrebbe essere del 3 per cento. Pochi soldi e anche distribuiti male, senza criteri di valutazione del merito: ‹‹Gli “atenei virtuosi” – spiegano gli autori – sono quelli con i conti a posto e non con alti standard formativi o promotori di ricerca di qualità››.

E la valutazione? A tale proposito, gli autori avvertono come le procedure, legate al merito e alla peer review, non siano immuni da innumerevoli distorsioni. Quanto all’altro punto, l’invecchiamento del personale docente, fenomeno di lungo periodo, che non mostra alcun segnale di rallentamento, il libro – peraltro ricco di dati e, soprattutto, di puntuali critiche su tutte le tematiche affrontate, che stimolano alla riflessione e al dibattito – ne dà conto: in Italia solo il 2 per cento dei docenti universitari ha meno di 30 anni, contro il 15 per cento della Germania o il 13 per cento della Gran Bretagna. Invece, i nostri docenti con oltre 50 anni di età sono il 56 per cento, contro il 31 per cento della Germania o il 16 per cento della Gran Bretagna.
E, ancora, i soliti altri mali: baronie, nepotismo, concorsi truccati, pensionamenti, turnover, assoluta incapacità di attrarre ricercatori e docenti stranieri, “fuga dei cervelli”. Punctum dolens quest’ultimo – Usa e Canada, per esempio, spesso risucchiano i nostri cervelli in danarosi centri di ricerca di alto livello – e dire che le qualità per competere ci sono, eccome.
Un esempio? All’European research council l’Italia si è classificata al primo posto, a pari merito con la Germania.

Quindi, la critica alla cattiva politica, ai tagli targati Tremonti-Gelmini del 2008 e all’interesse teorico ma non operativo dell’opposizione. Ci sorge spontanea almeno una chiosa al decreto Gelmini: non si può burocratizzare la ricerca, né accentrarla al ministero.

La soluzione a tale sfascio e sfasciume? Sylos Labini e Zapperi vogliono alberi patrii cui appendere il futuro della ricerca. Con un punto fermo: finanziamento pubblico alla ricerca e all’alta formazione. E sordi alle sirene neoliberiste, che vorrebbero un’università privatistica. Perché l’innovazione va perseguita: ‹‹Il finanziamento alla ricerca, se ben gestito, non è un costo ma l’investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e per quello delle nuove generazioni››.

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