«I ricercatori – si legge nella lettera aperta – si sono sacrificati negli anni, svolgendo un compito che permettesse di mantenere la qualità e la quantità dell’offerta formativa e cioè della didattica». In altre parole, scrivono i promotori del Coordinamento, «il ricercatore, che deve fare ricerca e non “insegnare” e “fare lezione”» è stato costretto a «scegliere tra il proprio dovere e l’interesse dell’università e degli studenti». Il tutto per 1.250 euro al mese, che diventano 1.500 dopo i primi tre anni, ma restano ben lontani dai 1.800-2mila euro mensili degli omologhi francesi e tedeschi.
«Da una crisi – prosegue la lettera del Cnru – si esce anche sponsorizzando chi ha lavorato al di là delle proprie competenze, perché ha mostrato il proprio valore. Molti, inoltre, perderanno il loro posto di lavoro, perché “precari” o “a contratto”, pur avendo insegnato
e seguito gli studenti ». Di «vittoria dei ricercatori», parla “Rete29Aprile”, il «sito della protesta dei ricercatori universitari», a proposito del rinvio al 14 ottobre della discussione parlamentare del disegno di legge di riforma dell’università. «Ci auguriamo – si legge – che il governo sfrutti questa pausa di riflessione imposta, con senso di responsabilità e saggezza, dalla Camera dei Deputati per dare ascolto al mondo universitario e non solo ai rettori e per dare avvio a una riscrittura radicale di questo disegno di legge».
A fianco dei ricercatori sul piede di guerra scende anche Francesco Sylos Labini, autore, con Stefano Zapperi, del libro “I ricercatori non crescono sugli alberi” (Laterza), un crudo spaccato sulla realtà di questi studiosi. «Fanno bene a protestare: stiamo andando nella
direzione sbagliata », dice Sylos Labini senza troppi giri di parole. «In Italia – prosegue – le università hanno due grossi problemi, collegati tra loro: il reclutamento dei nuovi professori e il pensionamento dei vecchi, il cosiddetto ricambio generazionale. In sostanza, abbiamo la percentuale più alta di docenti over 60 anni e la più bassa di quella under 40».
Secondo l’analisi di Sylos Labini, in questi anni «l’università si è mantenuta grazie ai 50mila precari, docenti “a contratto” che, se passa questa riforma, non avranno più alcuna possibilità di diventare professori a tutti gli effetti».
Del disegno di legge Gelmini, il ricercatore contesta anche la volontà di «abolire il ruolo del ricercatore, che è una delle poche “valvole di sfogo” per l’assunzione di chi esce dall’università, e sostituirlo con la tenure track americana». «Questa – aggiunge Sylos Labini – negli Usa, prevede l’assunzione a tempo determinato di 3 o 4 anni. Al termine, chi ha prodotto dei risultati viene nominato professore in via definitiva. Da noi, invece, si resta precari per decenni».*
Paolo Ferrario*
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