"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




lunedì 29 novembre 2010

Formazione, ricerca, sviluppo


Tavola Rotonda, su "Formazione, ricerca, sviluppoil 29 novembre alle 13,45 presso la facolta' di medicina dell'universita' degli studi di Milano (Sala Pio XII, Palazzo Schuster, Via S. Antonio 5). Ospita il Prof. V.F. Ferrario, modera il Dott. R. Satolli. Intervengono:
Prof. Paolo Corradini,
Prof. Elio Franzini,
Prof. Alberto Mantovani,
On. Walter Tocci,
Dott. Stefano Zapperi





Segnalazione: I baroni allo scoperto 

venerdì 26 novembre 2010

Futuristi sui tetti

Le foto di Granata, della Vedova, Perina e Moroni sul tetto di Architettura a Roma(ma anche Vendola, Di Pietro, Pardi, Bersani)

Un anno fa, con il mio collega Stefano Zapperi, ho scritto un libro dal titolo “I ricercatori non crescono sugli alberi”. Il titolo vorrebbe mettere in luce il fatto che formare un ricercatore richiede un sistema, un’infrastruttura e che i ricercatori non nascono per caso e sono importanti per il Paese. Il sistema universitario e della formazione sono dunque centrali, perché i ricercatori, e la ricerca che producono, che sia di base o applicata, che sia scientifica o umanistica, fanno parte delle infrastrutture di un paese avanzato. Ne rappresentano il futuro, perché solo dalla capacità di generare innovazione può nascere e crescere la possibilità di essere competitivi. Senza innovazione il paese è destinato alla decadenza, perché anche le famose scarpe che piacciano tanto al nostro premier saranno prodotte da chi ha a disposizione una mano d’opera che costa una frazione della nostra. Oggi i ricercatori stanno sui tetti perché pensano che il DDL Gelmini sia un’assurdità.

Come ho cercato già di mettere in luce il ddl Gelmini è il frutto del suo tempo. Un tempo in cui sparare sull’università pubblica è diventato uno sport nazionale. Un tempo in cui la ricerca di base non serve a niente. Un tempo i cui i ricercatori sono una confusa folla vociante e malmessa, con i capelli scompigliati e la barba un po’ sfatta, che fa da coreografia a qualche trasmissione televisiva. Un tempo in cui i ricercatori sono tutti raccomandati, gli ordinari tutti baroni, i baroni tutti mafiosi, e tutti certamente parenti o amanti di tutti gli altri. Un tempo in cui si sparano numeri e percentuali, leggi ed emendamenti, di cui nessuno conosce più il significato ma che sono utili a rispondere alla domanda del momento. Un tempo in cui si è perso il significato reale dell’istruzione, del  ruolo dell’università e dell’importanza della ricerca. Nel ddl Gelmini, come anche riconosciuto dal Senatore Valditara, che ne è stato il relatore al Senato, Manca tuttavia l’idea di fondo e più importante: la considerazione della centralità della ricerca e dell’istruzione.” E di che stiamo parlando, allora,  è sempre meno chiaro, soprattutto ora che il quadro politico è in rapido cambiamento. Una legge che prevede qualche centinaio di deleghe da definire che senso ha ora che il governo si sta incamminando in una via di inarrestabile declino? Chi definirà cosa? Quando? Come? L’università, già in una situazione critica di per sé, non ha certo il tempo di aspettare gli incerti tempi della politica. Soprattutto i giovani ricercatori non l’hanno e men che meno gli studenti che tra qualche mese troveranno aule vuote.

Le immagini di Granata, della Vedova, Perina e Moroni, tutti ora di Futuro e Libertà, sui tetti della facoltà di architettura di Roma parlano da sole. Sono saliti lassù per spiegarsi e per ascoltare: lo hanno fatto sinceramente e si sono confrontati apertamente. Se non lo avessi visto con i miei occhi difficilmente lo avrei creduto. Lo avevano fatto prima di loro Vendola, Di Pietro, Pardi, Ferrero e Bersani. Quest’ultimo subito additato come “un esempio per i violenti” da Gasparri. Queste immagini dimostrano visivamente e chiaramente, più d’ogni parola, che i finiani sono oramai dei marziani rispetto al loro ex gruppo: vivono e si comportano come abitanti di un altro pianeta. Come una controparte politica con cui si può discutere senza essere preventivamente bollati come disfattisti o “di fare il gioco dei baroni” (e ce ne vuole di fantasia!). Il quadro politico è cambiato, mettendo un pedale sull’acceleratore, e del retroterra che ha generato il ddl Gelmini sono rimaste solo parole che ogni minuto diventano più vuote ed inconsistenti. Bisogna solo che tutti se ne rendano conto con tranquillità e fermezza, guardando avanti: dietro ci sono solo macerie.



(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano online)

giovedì 25 novembre 2010

C’è speranza

L’università è un microcosmo in cui si rispecchiano tanti problemi e tante dinamiche che si svolgono a livello nazionale in tanti altri settori. A scala ridotta, si possono facilmente identificare i mali che affliggono il paese. In quello che succede in questi giorni è, ad esempio, chiaro il ruolo dell’informazione. Da anni sui maggiori quotidiani nazionali, dal Corriere della Sera a Repubblica, dal Sole24Ore alla Stampa, i commenti sulla situazione dell’università sono affidati a degli editorialisti che hanno lo stesso retroterra culturale, che sono portatori della stessa fanatica ideologia, anche spacciata come visione, e che hanno battuto il tasto della delegittimazione dell’università e della ricerca pubbliche proponendo in maniera quasi paranoica di fare tabula rasa dell’esistente e rimpiazzarlo con un altro sistema. Il dibattito è scomparso, a parte isolate e sparute voci di dissenso che si sentono più spesso solo quando accompagnate da azioni dimostrative, come ad esempio quella attuata in questi giorni con l’occupazione dei tetti di varie facoltà. Il controllo capillare dell’informazione è l’altra faccia della medaglia di un’egemonia culturale che ha preso il sopravvento. Ed il risultato è tangibile anche nell’azione della politica, sia dell’attuale governo che dell’attuale opposizione. Quest’ultima per troppo tempo ha cercato di trovare dei punti di convergenza con il governo in carica per elaborare una riforma “condivisa”. La bozza di legge del PD che ho letto un anno fa, certo migliore del DDL Gelmini, aveva la stessa impostazione: riforma della governance, abolizione del ruolo di ricercatore, introduzione della tenure track, solo per citare alcuni punti. Certo le posizioni erano più ragionevoli del DDL Gelmini, ma una volta scelta quella via il gioco era fatto. Perché le parole, a differenze delle idee, sono facilmente manipolabili e sui dettagli si può operare in maniera molto disinvolta, come infatti è successo. Le idee su come fare un’altra riforma sono rimaste troppo vaghe per troppo tempo.

Durante il governo Prodi l’università primeggiava nelle dichiarazioni di intenti. Ma non possiamo di certo concludere che durante quel governo siano state fatte delle riforme che si ricordino  ancora oggi. C’è stata una maggiore attenzione solo nel senso che si è cercato di tirare avanti mettendo toppe ad un sistema che perde acqua da troppe parti, a volte, come nel caso della stabilizzazione dei “precari” degli enti di ricerca, in maniera del tutto sbagliata. Soprattutto non c’è stata una visione culturale che sia rimasta impressa sul ruolo dell’università e della ricerca nella società e verso quale direzione indirizzare una riforma del sistema.  Dietro la riforma Berlinguer, che vista con occhi di oggi appare del tutto inadeguata e complice dello sfascio attuale del sistema, si muoveva un gruppo di persone impegnate e di comprovata esperienza. Il fallimento della riforma Berlinguer è stato accompagnato da un annichilimento di quelle forze e di quelle persone che l’avevano pensata. Il naufragio dell’esperienza del governo Prodi è stato il colpo di grazia. Al loro posto è subentrato quel ristretto gruppo di economisti fanatici che dagli inizi del nuovo millennio ha conquistato il monopolio mediatico e dunque anche culturale, con un messaggio devastante che, ripetuto infinite volte, ha fatto breccia e si è imposto. La riforma Gelmini è il frutto del suo tempo tanto che oggi si può fare un simpatico sondaggio dal titolo “Il ministro Gelmini accusa gli studenti che protestano e dice “difendono i baroni”: ha ragione?”. Questa è una domanda tanto paradossale quanto assurda. Mentre i ricercatori cercano di difendere il proprio futuro, i baroni o sono rappresentati dalla Conferenza dei Rettori che appoggia la riforma oppure, i più illuminati, guardano distrattamente a quanto succede.

Oggi si intravede una speranza che fa perno sulla presa di coscienza di una parte del mondo universitario della drammatica situazione in cui ci ritroviamo. In questi mesi, grazie all’azione di protesta contro il DDL Gelmini, si è creata una nuova coscienza comune che si era smarrita da un decennio. Quanto sia importante lo si è visto chiaramente nell’azione di pressione che ha avuto sull’opposizione parlamentare nel suo ruolo parlamentare. Da quanto è successo e sta succedendo tutti hanno da imparare. La politica che si rende conto che senza un confronto con le forze vitali dell’università non si va lontano e bisogna innanzitutto capire quali queste forze siano: a me sembra che vi sia anche una questione di percezione del problema da parte delle precedenti generazioni, quelle che hanno avuto una vita ed una carriera troppo diversa, da quelle delle attuali generazioni che sono più consce dei problemi reali  di oggi. Quelle che hanno subito troppe disillusioni per avere ancora le energie per affrontare la situazione. Anche i movimenti spontanei di studenti, precari, ricercatori e docenti hanno imparato, vedendo concretizzare l’effetto dei propri sforzi, che solo un impegno costante può portare a dei risultati. Questo non deve e non dovrà essere uno sprazzo estemporaneo ma bisogna gettare le basi perché si traduca in una situazione di dialogo permanente. La bussola alla politica deve pur venire da qualche altra parte, visto che non è capace di trovarsela da sola a prescindere dalle esigenze reali del paese. Ma la battaglia vincente si gioca sul piano culturale e d’influenza dell’opinione pubblica attraverso i media. Perché è proprio lì che finora si è perso troppo terreno che ora va riconquistato centimetro per centimetro.

(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano online)

martedì 23 novembre 2010

Discussione alla Camera del 22 Novembre 2010


Intervento di Giovanni Bachelet in aula (scarica tutto l'intervento


....Io ricordo che, nel 2003, Alesina e Giavazzi dichiararono che l'università italiana non era riformabile.Vi leggo le loro parole: «Il sistema universitario e della ricerca in Italia non sono riformabili. Serve un cambiamento radicale, perché riversare più fondi in questo sistema è come buttarli al vento» e «illudendosi che sia possibile migliorare l'esistente, in realtà si fa il gioco dei conservatori, cioè di coloro che sono responsabili del disastro in cui ci troviamo». Dunque, l'editorialista che più ha incoraggiato la riforma, ritiene che il sistema non sia riformabile: forse ha un'idea malthusiana o, forse, direbbe qualcun altro, anarco-­‐rothbardiana dell'università e della ricerca. E cosí sarebbe se un'altra delle invenzioni di destra che piacciono a Giavazzi, l'IIT, non vivesse, invece, esclusivamente  di soldi dello Stato, senza riuscire, in sei o sette anni, ad attirare nemmeno un euro di investimento da parte dei privati. Ma l’università non si cura con il napalm, sperando che poi dalle rovine nasca, purificata, la nuova vita. C’è bisogno, semmai, di un piano di rientro per le università in crisi di bilancio e un piano di potenziamento per le università che vanno bene.....



Intervento di Walter Tocci in aula (Link  --- vai a pag.42 e seguenti)

Il Capo del Governo poi, in uno dei suoi illuminanti interventi all’estero, si è posto la seguente domanda: perché dovremmo pagare gli scienziati se facciamo le più belle scarpe del mondo? Forse non si tratta di battute da bar. Se pensa questo chi ha governato quasi ininterrottamente il decennio, si capisce meglio perché si è fermata la crescita economica e civile dell’Italia.

Segnalazioni: l'universita' in ostaggio 

venerdì 19 novembre 2010

L’eccellenza de’ noantri



Sette anni fa, sul sito lavoce.info si è svolto un acceso dibattito tra diversi economisti. Motivo del contendere niente di meno che la fondazione di un nuovo istituto di ricerca, anzi del primo istituto di ricerca finalmente eccellente, in mezzo alla supposta mediocrità nostrana. Alesina e Giavazzisuonarono la carica sostenendo che riversare più fondi in questo sistema è come buttarli al vento…” e che l’unico modo per garantire “…rigore, controlli ed incentivi…è muoversi all’esterno dell’università italiana di oggi. Vittorio Grilli ci sta provando con l’IIT: è per questo che cerchiamo di aiutarlo mentre tutti i conservatori lo criticano”Vittorio Grilli, anche lui economista formatosi alla Bocconi ed in America, è dunque diventato Presidente del nuovo Istituto Italiano di Tecnologia(IIT) nel 2005, carica che ha conservato fino ad oggi, insieme a quella di direttore generale del tesoro al  Ministero dell’Economia da cui l’IIT dipende. L’IIT è stato dunque fondato con una struttura giuridica completamente diversa rispetto agli altri enti di ricerca italiana, così come diversa è la sua dote finanziaria: 100 milioni di euro all’anno dal 2005 al 2014, ovvero una spesa enorme visti gli attuali chiari di Luna. Infatti questa stessa cifra, 100 milioni di euro all’anno, è approssimativamente quanto viene speso, all’anno, per finanziare l’intera ricerca scientifica italiana con i progetti di rilevanza nazionale (PRIN) su tutto lo scibile umano. Come direttore scientifico è stato nominato, nel dicembre 2005, Roberto Cingolani già Direttore del Laboratorio Nazionale di Nanotecnologia (NNL) di Lecce.

Altri economisti hanno avuto delle posizioni meno massimaliste del duo Alesina-Giavazzi. Ad esempio, Jappelli e Pagano hanno proposto che i fondi assegnati per l’IIT fossero invece destinati all’università per assumere nuovi professori sotto il controllo di un comitato scientifico internazionale. Luigi Spaventa scrive: “Prendo nota piuttosto del leit motiv di Alesina e Giavazzi: l’università italiana è irredimibile e deve essere abbandonata al suo destino di squallore; qualsiasi intervento all’interno di essa sarebbe un vano spreco”.



L’effetto di questo dibattito è stato dunque quello di spianare la strada alla fondazione di un nuovo istituto nato con (Legge 326/2003“lo scopo di promuovere lo sviluppo tecnologico del paese e l’alta formazione tecnologica, favorendo così lo sviluppo del sistema produttivo nazionale”. Belle intenzioni. Tuttavia in questa selva d’articoli non si trova mai una risposta alle seguenti domande:cosa dovrebbe fare il nuovo istituto? Quale ricerca, su quali temi, perché? Perché non c’è stata una selezione nazionale pubblica dei gruppi e delle tematiche di ricerca, in modo da scegliere i migliori? Da chi sono stati decisi i vertici dell’istituto e con quali motivazioni scientifiche? Ci si è concentrati piuttosto nel costituire un istituto di ricerca con un’architettura completamente diversa non solo da quella di altri enti italiani, ma anche della gran parte dei centri di ricerca del mondo compreso il glorioso Massachusetts Institute of Technology (MIT). Ad esempio non c’èl’ingombrante e polveroso personale permanente come invece succede nelle obsolete istituzioni come, appunto, il  MIT. Inoltre si è pensato bene di mettere nel consiglio di amministrazione lo stesso Alberto Alesina e vari rappresentanti del mondo confindustriale, mentre le risorse sono assicurate dallo Stato. Le industrie per il momento non hanno partecipato al suo finanziamento: una situazione piuttosto tipica per il nostro paese, di cui abbiamo già discusso in questo blog.

Che la situazione fosse e sia piuttosto nebulosa è testimoniato da diversi fatti. Ad esempio Marco Cattaneo, Direttore de “Le Scienze”, ha messo in luce vari aspetto poco chiari, dall’impatto scientifico, alla valutazione ed al finanziamento dell’IIT: “E perché lì e soltanto lì si vanno a investire montagne di fondi quando l’Università, il CNR, l’ENEA e tutti gli altri enti di ricerca sono al soffocamento. Perché l’IIT non deve sottostare alle regole di trasparenza e di valutazione che si brandiscono come mannaie all’indirizzo di tutti gli altri?”

In un recente articolo su l’Espresso viene denunciato che la maggior parte del finanziamento accumulato negli anni non è stato speso e che si è formato un bel tesoretto: per i comuni mortali i fondi di ricerca (nazionali ed internazionali) hanno una scadenza oltre la quale, se non sono stati spesi, devono essere restituiti. Ma per le “eccellenze” nostrane le regole sono ovviamente altre. Critiche pesanti sono poi giunte dalla prestigiosa rivista Science che ha recentemente dedicato un ampio articolo all’IIT nel quale vengono riportate le dichiarazioni di alcuni scienziati di prestigio che erano stati chiamati a progettare l’istituto e i cui suggerimenti sono stati completamente ignorati. La loro impressione era quella di essere stati usati come specchietto per le allodole, per coprire scelte arbitrarie. Nell’articolo si parla inoltre di un fantomatico rapporto, commissionato dal ministro dell’economia Tommaso Padoa-Schioppa, che indicava forti criticità nell’attività dell’IIT. Questo rapporto non è mai stato reso pubblico.

Per questo motivo poco tempo fa i deputati Bachelet, Tocci e Ghizzoni (PD) hanno fatto unainterrogazione parlamentare per sapere “quando e con quale modalità si intenda rendere pubblico il rapporto indipendente commissionato nel 2007 dal Ministro dell’economia e delle finanze Tommaso Padoa Schioppa, affinché Parlamento e contribuenti possano autonomamente valutare se la prosecuzione e anzi l’aumento straordinario dei finanziamenti pubblici stabilito con il decreto-legge sia o meno congruo con il contenuto di quel rapporto, allora fresco di stampa“. Un punto chiave nelle discussioni sulla valutazione è che questa sia effettuata da persone competenti e realmente indipendenti. Nell’interrogazione si nota inoltre il conflitto d’interessi che coinvolge sia Grilli, come presidente dell’IIT e direttore generale del Tesoro che alloca le risorse all’IIT, che Cingolani, direttore scientifico IIT e fondatore del laboratorio NNL di Lecce che beneficia di collaborazioni con l’IIT. Ad esempio, quando Cingolani era contemporaneamente direttore scientifico dell’IIT e responsabile del CNR-INFM, l’IIT ha finanziato con 3.5 milioni di euro proprio il laboratorio CNR-INFM NNL di Lecce. Nulla di penalmente rilevante, ma chissà se nell’obsoleto MIT una gestione del genere sarebbe stata accettata senza problemi.

Il Governo non  risponde in maniera soddisfacente a questi appunti. In particolare si scrive che “Con riferimento ai risultati dell’attività svolta dal Comitato di Valutazione 2007, si fa presente  chenon risulta pervenuta copia del relativo rapporto né al Ministero dell’Economia e delle Finanze, Dipartimento del Tesoro, né all’istituto in questione”. Giovanni Bachelet, replicando “si dichiara totalmente insoddisfatto. Rileva come l’esistenza del rapporto commissionato nel 2007 dal Ministro pro tempore Padoa Schioppa in materia di valutazione dell’IIT sia stata confermata dagli estensori stessi del rapporto, da lui interpellati, nonché dallo stesso Professor Padoa Schioppa. … Quindi rileva che ci si trova in una situazione paradossale in cui gli estensori dichiarano di averlo consegnato e che solo il Governo ha l’autorità per divulgarlo mentre l’Esecutivo dichiara di non possederlo. Osserva che è difficile capire cosa significhi questa risposta cioè se essa voglia sottolineare che nella burocrazia si perdono documenti rilevanti oppure se si voglia operare una burla nei confronti del deputato interrogante.”

Sui risultati scientifici la situazione ancora non è affatto chiara. A prescindere dal rapporto perduto nei meandri della burocrazia (?) di  tanto in tanto leggiamo qualche articolo su qualche progetto targato IIT (ad esempio il robot I-CUBE ) in cui non si specifica quale sia il contributo reale ed originale effettivamente svolto dall’istituto (visto che il progetto del robot esisteva anche prima dell’IIT). L’IIT infatti, da qualche tempo, distribuisce una parte dei suoi ingenti fondi (tramite bandi pubblici – progetti SEED) per finanziare progetti universitari o di altri enti di ricerca italiani,  attraverso un processo di valutazione per nulla limpido (molti progetti non hanno ricevuto nessun tipo di giudizio). Ma non era tutta da buttare via la ricerca pubblica? Se alla fine l’IIT agisce come un’agenzia di finanziamento, non si poteva direttamente creare un’agenzia di finanziamento seria, basata su procedure di peer-review trasparenti, senza mischiare la produzione della ricerca con l’assegnazione dei finanziamenti? L’obsoleto MIT non ha un ruolo d’agenzia di finanziamento, che invece negli Stati Uniti è svolto dalla National Science Foundation.

Negli articoli sui quotidiani che decantano le attività dell’IIT ci sono spesso affermazioni inesattesoprattutto rispetto alla situazione di altri enti pubblici. Ad esempio si dichiara che nell’IIT il rapporto tra ricercatori e personale amministrativo è 8 a 2 mentre per il CNR è 1 a 1. Come replicato dal presidente del CNR Luciano Maiani, questa affermazione è falsa in quanto il personale amministrativo costituisce il 12% del totale ed il resto sono ricercatori e tecnologi (figure pertinenti alla ricerca, pari al 60% del totale) e tecnici (28%). Maiani nota anche che il CNR ottiene più del 30% del budget in aggiunta alla dotazione del ministero mentre l’IIT solo il 10%. Infine, nella classifica diScimago delle università e degli istituti di ricerca, che considera i dati per il periodo 2004-2008 (e dunque preliminari per l’IIT), troviamo che l’IIT ha una produzione molto limitata, per lo più incollaborazione esterna, di 216 documenti mentre il CNR ne ha 31,164. Paragonare un grande ente come il CNR all’IIT non ha comunque molto senso: e allora perché si continua a gettare discredito sul CNR per glorificare l’IIT? Forse per giustificare l’intera operazione dell’IIT? L’IIT ha il 10% del personale e solo il 4% delle pubblicazioni del CNR (dati 2009) e finanzia varie attività che proprio al CNR si svolgono. Questa situazione avvalora l’opinione comune che nell’IIT ci sianomolte risorse ma poche idee e che il CNR, sia pur con tutti i suoi limiti, sia molto più produttivo (anche pro capite) dell’IIT.

Insomma l’idea che non funziona è proprio quella di voler fare “il nuovo” a discapito del “vecchio”,  l’“eccellente” lasciando morire tutto il resto. L’obsoleto MIT esiste perché è inserito in un sistema universitario e di ricerca molto articolato e ben strutturato. Non ci si venga comunque a raccontare la favola sul MIT italiano fatto di “rigore, controlli ed incentivi” perché, come anche spesso accade, si unisce al danno la beffa soprattutto verso i tanti che lavorano nelle università e nei centri di ricerca pubblici e che sono stimati e rispettati nel mondo. Comunque è il caso di dirlo e ribadirlo:viva la libertà, viva la California!

Segnalazioni
Una riforma epocale. Anzi, d’epoca
Il Kit del giornalista 


(Pubblicato sul Il Fatto Quotidiano online)