"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.
venerdì 26 novembre 2010
Futuristi sui tetti
Le foto di Granata, della Vedova, Perina e Moroni sul tetto di Architettura a Roma(ma anche Vendola, Di Pietro, Pardi, Bersani)
Un anno fa, con il mio collega Stefano Zapperi, ho scritto un libro dal titolo “I ricercatori non crescono sugli alberi”. Il titolo vorrebbe mettere in luce il fatto che formare un ricercatore richiede un sistema, un’infrastruttura e che i ricercatori non nascono per caso e sono importanti per il Paese. Il sistema universitario e della formazione sono dunque centrali, perché i ricercatori, e la ricerca che producono, che sia di base o applicata, che sia scientifica o umanistica, fanno parte delle infrastrutture di un paese avanzato. Ne rappresentano il futuro, perché solo dalla capacità di generare innovazione può nascere e crescere la possibilità di essere competitivi. Senza innovazione il paese è destinato alla decadenza, perché anche le famose scarpe che piacciano tanto al nostro premier saranno prodotte da chi ha a disposizione una mano d’opera che costa una frazione della nostra. Oggi i ricercatori stanno sui tetti perché pensano che il DDL Gelmini sia un’assurdità.
Come ho cercato già di mettere in luce il ddl Gelmini è il frutto del suo tempo. Un tempo in cui sparare sull’università pubblica è diventato uno sport nazionale. Un tempo in cui la ricerca di base non serve a niente. Un tempo i cui i ricercatori sono una confusa folla vociante e malmessa, con i capelli scompigliati e la barba un po’ sfatta, che fa da coreografia a qualche trasmissione televisiva. Un tempo in cui i ricercatori sono tutti raccomandati, gli ordinari tutti baroni, i baroni tutti mafiosi, e tutti certamente parenti o amanti di tutti gli altri. Un tempo in cui si sparano numeri e percentuali, leggi ed emendamenti, di cui nessuno conosce più il significato ma che sono utili a rispondere alla domanda del momento. Un tempo in cui si è perso il significato reale dell’istruzione, del ruolo dell’università e dell’importanza della ricerca. Nel ddl Gelmini, come anche riconosciuto dal Senatore Valditara, che ne è stato il relatore al Senato, “Manca tuttavia l’idea di fondo e più importante: la considerazione della centralità della ricerca e dell’istruzione.” E di che stiamo parlando, allora, è sempre meno chiaro, soprattutto ora che il quadro politico è in rapido cambiamento. Una legge che prevede qualche centinaio di deleghe da definire che senso ha ora che il governo si sta incamminando in una via di inarrestabile declino? Chi definirà cosa? Quando? Come? L’università, già in una situazione critica di per sé, non ha certo il tempo di aspettare gli incerti tempi della politica. Soprattutto i giovani ricercatori non l’hanno e men che meno gli studenti che tra qualche mese troveranno aule vuote.
Le immagini di Granata, della Vedova, Perina e Moroni, tutti ora di Futuro e Libertà, sui tetti della facoltà di architettura di Roma parlano da sole. Sono saliti lassù per spiegarsi e per ascoltare: lo hanno fatto sinceramente e si sono confrontati apertamente. Se non lo avessi visto con i miei occhi difficilmente lo avrei creduto. Lo avevano fatto prima di loro Vendola, Di Pietro, Pardi, Ferrero e Bersani. Quest’ultimo subito additato come “un esempio per i violenti” da Gasparri. Queste immagini dimostrano visivamente e chiaramente, più d’ogni parola, che i finiani sono oramai dei marziani rispetto al loro ex gruppo: vivono e si comportano come abitanti di un altro pianeta. Come una controparte politica con cui si può discutere senza essere preventivamente bollati come disfattisti o “di fare il gioco dei baroni” (e ce ne vuole di fantasia!). Il quadro politico è cambiato, mettendo un pedale sull’acceleratore, e del retroterra che ha generato il ddl Gelmini sono rimaste solo parole che ogni minuto diventano più vuote ed inconsistenti. Bisogna solo che tutti se ne rendano conto con tranquillità e fermezza, guardando avanti: dietro ci sono solo macerie.
(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano online)
Un anno fa, con il mio collega Stefano Zapperi, ho scritto un libro dal titolo “I ricercatori non crescono sugli alberi”. Il titolo vorrebbe mettere in luce il fatto che formare un ricercatore richiede un sistema, un’infrastruttura e che i ricercatori non nascono per caso e sono importanti per il Paese. Il sistema universitario e della formazione sono dunque centrali, perché i ricercatori, e la ricerca che producono, che sia di base o applicata, che sia scientifica o umanistica, fanno parte delle infrastrutture di un paese avanzato. Ne rappresentano il futuro, perché solo dalla capacità di generare innovazione può nascere e crescere la possibilità di essere competitivi. Senza innovazione il paese è destinato alla decadenza, perché anche le famose scarpe che piacciano tanto al nostro premier saranno prodotte da chi ha a disposizione una mano d’opera che costa una frazione della nostra. Oggi i ricercatori stanno sui tetti perché pensano che il DDL Gelmini sia un’assurdità.
Come ho cercato già di mettere in luce il ddl Gelmini è il frutto del suo tempo. Un tempo in cui sparare sull’università pubblica è diventato uno sport nazionale. Un tempo in cui la ricerca di base non serve a niente. Un tempo i cui i ricercatori sono una confusa folla vociante e malmessa, con i capelli scompigliati e la barba un po’ sfatta, che fa da coreografia a qualche trasmissione televisiva. Un tempo in cui i ricercatori sono tutti raccomandati, gli ordinari tutti baroni, i baroni tutti mafiosi, e tutti certamente parenti o amanti di tutti gli altri. Un tempo in cui si sparano numeri e percentuali, leggi ed emendamenti, di cui nessuno conosce più il significato ma che sono utili a rispondere alla domanda del momento. Un tempo in cui si è perso il significato reale dell’istruzione, del ruolo dell’università e dell’importanza della ricerca. Nel ddl Gelmini, come anche riconosciuto dal Senatore Valditara, che ne è stato il relatore al Senato, “Manca tuttavia l’idea di fondo e più importante: la considerazione della centralità della ricerca e dell’istruzione.” E di che stiamo parlando, allora, è sempre meno chiaro, soprattutto ora che il quadro politico è in rapido cambiamento. Una legge che prevede qualche centinaio di deleghe da definire che senso ha ora che il governo si sta incamminando in una via di inarrestabile declino? Chi definirà cosa? Quando? Come? L’università, già in una situazione critica di per sé, non ha certo il tempo di aspettare gli incerti tempi della politica. Soprattutto i giovani ricercatori non l’hanno e men che meno gli studenti che tra qualche mese troveranno aule vuote.
Le immagini di Granata, della Vedova, Perina e Moroni, tutti ora di Futuro e Libertà, sui tetti della facoltà di architettura di Roma parlano da sole. Sono saliti lassù per spiegarsi e per ascoltare: lo hanno fatto sinceramente e si sono confrontati apertamente. Se non lo avessi visto con i miei occhi difficilmente lo avrei creduto. Lo avevano fatto prima di loro Vendola, Di Pietro, Pardi, Ferrero e Bersani. Quest’ultimo subito additato come “un esempio per i violenti” da Gasparri. Queste immagini dimostrano visivamente e chiaramente, più d’ogni parola, che i finiani sono oramai dei marziani rispetto al loro ex gruppo: vivono e si comportano come abitanti di un altro pianeta. Come una controparte politica con cui si può discutere senza essere preventivamente bollati come disfattisti o “di fare il gioco dei baroni” (e ce ne vuole di fantasia!). Il quadro politico è cambiato, mettendo un pedale sull’acceleratore, e del retroterra che ha generato il ddl Gelmini sono rimaste solo parole che ogni minuto diventano più vuote ed inconsistenti. Bisogna solo che tutti se ne rendano conto con tranquillità e fermezza, guardando avanti: dietro ci sono solo macerie.
(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano online)
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Condivido pienamente tutte le consideraioni, ma Granata & co sul tetto evidenziano l'assurdo non sense di Valditara relatore e difensore del DDL (mentre Fare Futuro ha espresso critiche verso questa riforma in tempi non sospetti)
RispondiEliminaGrazie di tutto il lavoro che fai per chiarire le idee in queso mare di slogan!
grazie !
RispondiEliminaIeri ho ascoltato la trasmissione di radio 24 condotta da Oscar Giannino. L'argomento trattato era la protesta dei ricercatori ed uno degli ospiti era il Presidente del CNR che ha fatto delle affermazioni sconcertanti.
RispondiElimina1. Ha dichiarato, più o meno testualmente, che è giusto che se un ricercatore non fa niente non ottenga premi e promozioni. Lo sa il Presidente che nel mondo normale chi non fa niente perde il posto di lavoro (e che talvolta lo perde indipendentemente dal fatto che sia bravo oppure no)?
2. Il Presidente del CNR ha poi detto che dall'estero, dove si trovava, la ricerca italiana appariva in buona salute e adeguata a quella di un paese avanzato. Allora mi chiedo: perché non attiriamo ricercatori stranieri, che, al netto di quelli che vengono per studiare letteratura e lingua italiana o latina oppure storia dell'antica Roma, sono pochissimi? E perché tutti quelli che hanno frequentato l'Università, a Nord come a Sud, parlano di criteri di selezione dei ricercatori quanto meno strambi?
Talvolta mi sento preso in giro e preferisco pensare che chi parla sui media non sia perfettamente consapevole del mondo che lo circonda, benché occupi posizioni di rilievo.
Caro Carlo anche io ho sentito quello che ha detto Maiani e si tratta di considerazioni che, oltre ad completamente condivisibili, dovrebbero far parte della cultura di qualsiasi paese sviluppato. Purtroppo pare proprio che il nostro non lo sia.
RispondiElimina[Stefano - un ricercatore]
RispondiEliminaCaro FSL,
dalle parole di Fini risulta chiaro come Confindustria abbia vinto, con lo smantellamento bipartisan della nostra università in dirittura d'arrivo. L'esempio del SSN è sotto i nostri occhi, eppure...
Complimenti per il tuo impegno, comunque.
Ma a parte lo sconforto e la pena, vorrei rispondere ai genii che vedono nella scarsa presenza di professori e studenti stranieri un sintomo della crisi universitaria (forse in sintonia con le "autorevoli" classifiche anglocentriche):
in Italia i corsi si impartiscono in ITALIANO. E' assolutamente ovvio che non ci siano docenti stranieri al di fuori dei settori dove la conoscenza della nostra -bellissima- lingua risulta indispensabile. Per gli studienti il discorso è molto simile.
Sarebbe bello vedere le classifiche dopo aver scorporato questo fattore, e magari le questioni logistico-residenziali.
Saluti,
stefano
PS Ma qualcuno ha detto ai tiggì del prestigiosissimo premio vinto dal Prof. Parisi?
Io penso che se di vittoria si tratta, sarà la classica vittoria di Pirro. Non si esce da venti anni di disastro politico in maniera semplice e, con questa classe politica che ci ritroviamo, senza turbolenza. Mi sembra che qualcosa si inizi a muovere sarà un processo lungo e faticoso.
RispondiEliminaCaro Sylos Labini,
RispondiEliminanon condivido il suo ottimismo sull'atteggiamento dei "futuristi": Fini sta richiamando all'ordine, e martedì voteranno il "meglio di questa legislatura" senza fiatare.
E sono convinto che Napolitano abbia avuto la sua parte in questa commedia/tragedia.
un depresso ricercatore (non confermato)
non c'era nessun ottimismo su FLI solo la constatazione che hanno discusso invece di insultare.
RispondiEliminama sanno perchè son saliti ?come vogliono fare la scuola di qualità ? non sanno che la scuola pubblica costa per alunno/anno 6 volte la privata ?
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