Sul sapere pubblico non si scherza. L'università e la ricerca italiana sono costrette a tagli e cure dimagranti, ironia della sorte proprio mentre in altri paesi l'investimento sul sapere è la via maestra per uscire dalla crisi. Tagli, blocco delle assunzioni e, per venire a uno dei punti più contestati della riforma Tremonti-Gelmini, la riduzione del venti per cento del fondo di finanziamento ordinario delle università nei cinque anni a venire. Roba da far chiudere gli atenei. Per non parlare della famigerata fuga dei cervelli all'estero e dell'assottigliarsi dei fondi destinati alla ricerca. E' solo una parte del problema, guai a dimenticarla d'accordo, ma sull'università ci sarebbe tanto altro da raccontare. A cominciare dall'età media avanzata del corpo docente, dal ricambio generazionale che non arriva mai, dall'immobilismo di un sistema che riflette un'Italia bloccata, in cui i figli fanno il mestiere dei padri. E, ancora, i baroni che fanno il bello e cattivo tempo, il meccanismo di selezione che non funziona più, i concorsi pubblici che fanno acqua da tutte le parti, la manipolazione delle regole e last but not least ricercatori costretti a lavorare da precari fin quasi l'età pensionabile. Il quadro che ne risulta è miserevole. Gli atenei italiani sono sospesi tra la conservazione di un sistema che produce precariato (per i molti) e privilegi (per i pochi) e la mortificazione di un sapere pubblico, sempre più giù nella lista dei pensieri dei governi che si sono succeduti in questi anni. Anzi, nell'opinione pubblica si è prodotta l'illusione di uno scambio impossibile, come se bastasse tagliare i finanziamenti per cancellare qualche interesse corporativo negli atenei. Chissà, se la sinistra desse meno l'impressione di voler conservare assieme al bambino anche l'acqua sporca, i precari ma anche i baroni, il sapere pubblico ma anche un sistema di relazioni poco trasparenti, riuscirebbe magari a togliere fiato alle argomentazioni della destra che proprio in nome delle degenerazioni del mondo accademico giustifica i tagli dei finanziamenti.
L'università italiana è una piramide alla cui base sono gli studenti, a loro volta sormontati da uno strato di ricercatori precari che è andato vieppiù crescendo negli ultimi anni - una fetta consistente di quello che ormai è chiamato il proletariato cognitivo dei paesi a capitalismo avanzato. Su in alto, alla punta, al vertice della piramide ci sono invece i docenti.Una pentola in ebollizione sul punto di esplodere. A dircelo sono le cifre, ad esempio quelle elencate con scrupolo da due ricercatori, uno Francesco Sylos Labini, otto anni di ricerca al Centro Enrico Fermi di Roma, studioso di astrofisica, l'altro Stefano Zapperi, fisico, attualmente a servizio al Cnr di Modena, autori assieme di I ricercatori non crescono sugli alberi (Laterza, pp. 120, euro 12). I dati confermano il quadro: una «classe dirigente accademica spesso inadeguata e in parte anche corrotta», il ricambio generazionale sempre più difficile, le leggi del pensionamento che in Italia «permettono la permanenza in servizio dei docenti ben oltre i 65 anni d'età», stipendi d'ingresso per i ricercatori «molto bassi» e le poche risorse concentrate «in maniera crescente sulla parte più anziana del corpo docente».
Vediamo qualche numero. Su 61.929 docenti (nella cifra sono raggruppati ordinari, associati e ricercatori) la percentuale di quelli sotto i 35 anni è appena il 5,7 per cento, il 25,5 è tra i 35 e 44, il 26,6 tra 45 e 54, il 30,6 tra 55 e 64 e, infine, il 12 con età maggiore di 65 anni (fonte Miur: http://statistica.miur.it). «Questa semplice analisi mette in luce due grandi anomalie: la percentuale bassissima di giovani (con età minore ai 40 anni) e l'alta percentuale di ultrasessantenni». I più sfortunati sono i fisici, «solo il 2% ha meno di 40 anni, mentre il 48% ha 60 anni o più (il 29,5% ha addirittura più di 65 anni!). Similmente squilibrate sono le distribuzioni di architettura e lettere». Non è sottovalutare, il ricambio generazionale. Incancrenito com'è lo squilibrio giovani-vecchi - con quel che ne consegue anche nei rapporti di potere - non è un caso che sul tema generazionale la destra radicale faccia propaganda. Non è passato molto tempo da quando i neofascisti provarono a infiltrarsi nel movimento studentesco dell'Onda proprio giocando sulla contrapposizione giovani versus vecchi, studenti versus baroni. Piccolo dettaglio, non sarà certo il taglio dei fondi a portare a nuove assunzioni.
Come pure da non sottovalutare sono gli scandali dei concorsi pubblici, le logiche parentali o clientelari con i quali i baroni scelgono il corpo docente. Precariato e strapotere accademico sono due facce della stessa medaglia. «Negli ultimi anni si è venuto a creare un ampio strato di giovani ricercatori qualificati e precari, ovvero con contratti di lavoro temporanei». Lunghi anni di studio alle spalle, esperienza di ricerca consolidata, ma nessuna possibilità d'essere assunti. Quanti sono? A voler fare una stima per difetto sono «circa un terzo del totale dei docenti universitari». In cima, il barone. Se ne potrebbe fare un ritratto antropologico, «una figura che non ha eguali in altre parti del mondo. Si tratta di un personaggio che dedica la maggior parte del proprio tempo ad architettare metodi sempre più sofisticati per controllare le assunzioni e le promozioni dei propri collaboratori». A volte, il barone «è stato un grande scienziato» ma non è più come un tempo, quando i «grandi maestri crevano importanti scuole di pensiero e di ricerca». Il sistema oggi è degenerato. Resta solo il reclutamento di «assistenti-schiavi».