"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




mercoledì 30 giugno 2010

Università e ricerca in Italia: dalla diagnosi alle possibili terapie


Recensione di Fausto Longo su "Meno di Zero, Rivista dell'Università in Movimento"

In questi ultimi anni abbiamo assistito ad una ricca produzione di saggi sul mondo dell’Università alcuni dei quali hanno avuto un discreto successo. Molti di questi lavori, scritti da giornalisti ma anche da docenti universitari, hanno concentrato l’attenzione sui mali dell’università italiana inseguendo in tal modo quei quotidiani occupati a presentare la nostra università solo come covi di baroni e di incompetenti. Si tratta di mali esistenti che nessuno vuole negare, ma è anche vero che un’analisi di un sistema complesso come quello universitario dovrebbe richiedere riflessioni più approfondite e un maggiore equilibrio nelle diagnosi e nelle possibili soluzioni. In questa linea si pone il libro di Francesco Sylos Labini (Istituto dei sistemi complessi del CNR - Centro Enrico Fermi di Roma), e di Stefano Zapperi (fisico ricercatore al CNR di Modena), ricercatori che hanno svolto parte della loro attività all’estero oltre ad essere già autori di apprezzabili contributi su aspetti del mondo accademico. Il volume è strutturato in cinque capitoli nei quali si affrontano alcuni problemi chiave del sistema universitario e della ricerca in Italia: dal dibattito su università e ricerca, alla drammatica situazione dell’invecchiamento della classe dei professori e dei ricercatori, alla valutazione, alla qualità della ricerca negli enti pubblici sino alle diagnosi e alle possibili terapie.


Il capitolo su università e ricerca in Italia mette bene in evidenza il rapporto difficile tra scienza e opinione pubblica, un rapporto spesso mediato da giornalisti tuttologi che lasciano spazio o ai grandi vecchi, lontani dalla ricerca attiva, o a personaggi che improvvisano perché non hanno alcuna idea del necessario rigore che richiede l’attività scientifica. In questo ambito si inseriscono le politiche del governo orientate a dare risposte alla cattiva stampa piuttosto che essere il risultato di una seria riflessione sul mondo dell’università e della ricerca. Non a caso il governo negli ultimi anni ha martellato l’opinione pubblica con slogan contro i baroni e a favore del merito e della qualità salvo poi agire concretamente solo con tagli che hanno penalizzato duramente la ricerca facendole perdere ulteriore competitività con gli altri paesi europei. D’altra parte che l’università sia trattata in Italia come bene di lusso – come è sottolineato nel libro – si comprende dall’atteggiamento avuto già dal governo Prodi che non si fece scrupolo di concedere agli autotrasportatori 30 milioni di euro sottratti direttamente ai fondi di ricerca (p. 15).
Drammatico il quadro che emerge sull’invecchiamento della nostra università. È sconfortante leggere che solo il 5,7% dei docenti (ma tra questi sono inclusi anche i ricercatori che docenti non sono) ha meno di 35 anni (p. 25), un dato che ci fa essere il fanalino di coda della vecchia Europa. Un Paese che non sa investire nei giovani è un Paese che avrà sempre meno idee innovative ed è destinato ad un inevitabile declino. Le cause di questo invecchiamento sono correttamente individuate dagli autori nelle numerose
ope legis che hanno caratterizzato i governi dei decenni passati; abbiamo assistito ad una politica di corto raggio che oggi paghiamo con un incremento di ricercatori precari spesso molto bravi ma con scarse possibilità di poter effettuare stabilmente ricerca. Gli interventi legislativi più recenti, sia quello della Moratti sia il DDL Gelmini che il Governo vuole approvare quanto prima, proponendo la creazione della nuova figura del ricercatore a tempo determinato e con una falsa tenure track non farà altro che peggiorare la situazione. Qui gli autori avrebbero potuto sottolineare maggiormente la situazione drammatica che l’applicazione della norma verrebbe a creare con i ‘vecchi’ ricercatori a tempo indeterminato; forse si sarebbe potuto approfondire allo stesso modo la singolarità dei ricercatori universitari (ma gli autori lavorano entrambi nel CNR) il cui ruolo effettivo è altro rispetto a quello stabilito dalla L. 382/1980 e dalle successive modifiche. I ricercatori, per legge, dovrebbero dedicarsi alla ricerca e alla didattica integrativa o (cfr. da ultimo la L. 270/2005) dare la propria disponibilità a tenere corsi curriculari. Quella che era un’eventualità per la maggior parte delle Facoltà è divenuta una necessità. Garantire l’offerta formativa a costo zero conviene infatti agli atenei ed è per questo che il DDL Gelmini per i nuovi ricercatori a tempo determinato stabilisce la didattica come attività obbligatoria, esattamente il contrario di quanto prevedeva la vecchia legge del 1980. Considerare i ricercatori a tempo indeterminato come docenti è dunque un errore, lo stesso che ritroviamo anche nel volume di Perotti (L’università truccata) che nel calcolare il rapporto tra studenti e docenti include i ricercatori tra i docenti senza rendersi conto dell’anomalia.


Valutare la ricerca è un’impresa difficile. Gli autori prendono in considerazione diversi sistemi adottati all’estero come la
peer review, le citazioni e l’indice H, l’Impact Factor ognuno dei quali presenta notevoli limiti; occorre aggiungere (ma gli autori sono fisici) che l’uso di questi sistemi appare del tutto insufficiente a valutare la ricerca nell’ambito delle scienze umane per le quali occorre trovare sistemi di valutazioni differenti. Ma a dispetto di ogni sistema di valutazione non c’è dubbio che ci sia bisogno anche di un grande senso di responsabilità che è mancata in molti docenti negli anni passati. Quel che deve cambiare è anche, e direi soprattutto, un atteggiamento culturale prima ancora che solo e semplicemente normativo.

Cupo è poi il quadro che gli autori fanno della ricerca negli enti pubblici dove ha dominato una burocrazia asfissiante ed inutile. Impietoso risulta il confronto tra il CNR italiano e con il CNRS francese (pp. 75-76). Come non concordare con Sylos Labini e Zapperi quando sostengono che occorre dire basta al merito di essere anziani (pp. 80-83) che vige negli enti pubblici? Senza alcun dubbio le responsabilità di queste situazioni vanno rintracciate anche nell’azione di alcuni sindacati che, anche in un recente passato, hanno cercato di far valere l’anzianità sul merito contribuendo in tal modo al peggioramento di un sistema; è chiaro che la soluzione a questo e a tanti altri problemi non può essere una riforma che preveda lo smantellamento dell’università e, più in generale, della ricerca pubblica. Ma come si fa a seguire gli ideologi della privatizzazione dopo il fallimento di simili scelte operate da governi di destra e di sinistra negli ultimi venti anni in altri ambiti? C’è una ragione in più perché si debba con forza sostenere la ricerca pubblica; questa consiste nella necessità di continuare a finanziare la ricerca di base, una ricerca necessaria per l’innovazione e lo sviluppo economico, ma che allo stesso tempo ha tempi lunghi, incompatibili con gli interessi privati (pp. 105-107).

Sono questi alcuni dei tanti temi che gli autori toccano con competenza e chiarezza nel breve saggio. Solo da riflessioni come quelle portate avanti da Sylos Labini e Zapperi è possibile ripartire per una riforma coerente del sistema universitario italiano. Chi oggi critica le riforme di questi ultimi venti anni e, da ultimo, l’intervento legislativo messo a punto da Tremonti e dalla Gelmini, non è un conservatore che preferisce lo status quo, ma un cittadino che vorrebbe innovare profondamente il sistema senza affidarsi a slogan che non hanno riscontro nella realtà e soprattutto nelle leggi.


Nelle conclusioni (pp. 110-114) i due ricercatori avanzano alcune proposte utili per migliorare il mondo dell’università e della ricerca. Di queste mi interessa rimarcarne una perché può incidere profondamente anche sui comportamenti individuali: mi riferisco alla necessità di pretendere la trasparenza nel sistema, una trasparenza basata sulla pubblicità di tutti i processi di valutazione e, direi anche, di decisione

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