In tutto il mondo la ricerca si basa anche su personale non permanente. E’ del tutto normale che dopo la laurea ed il dottorato si intraprenda un periodo di studio in altre sedi o paesi: la ricerca si basa anche su scambi culturali e di professionalità ed anzi è del tutto auspicabile non rimanere ancorati allo stesso posto per tutta la vita. In giro per l’Europa ho conosciuto schiere di ricercatori con contratti temporanei di qualsiasi nazionalità. Dopo qualche anno e dopo aver cambiato qualche paese, quando si ha una certa esperienza ed una certa visibilità internazionale nel proprio campo di ricerca, si inizia a pensare di far domanda per una posizione permanente da qualche parte. Alcuni preferiscono cercare di tornare nel proprio paese d’origine, possibilità permettendo, altri sono invece tentati da altri paesi perché la carriera è più allettante o perché le condizioni di ricerca sono migliori o per altre diverse ragioni. Così in Francia, in Svizzera, in Inghilterra, ma anche in Spagna ed ovviamente negli Stati Uniti è del tutto normale (almeno per quello che riguarda le discipline scientifiche) trovare persone di tutto il mondo a lavorare nello stesso laboratorio. La selezione è basata sul merito e non sul paese, la città o l’università di provenienza; la mobilità è una caratteristica fondamentale del “mercato” del lavoro nella ricerca e nell’istruzione superiore.
Dunque come in tutti gli altri paesi, un periodo di formazione, seguito da un processo di selezione meritocratico è inevitabile ed opportuno. Il problema in Italia non è tanto che i “cervelli fuggano” ma che non ci siano “cervelli” che, indipendentemente dalla loro nazionalità, possano venire a lavorare nelle università e nei centri di ricerca italiani. L’altra faccia della medaglia è che tanti giovani italiani riescono ad ottenere posizioni in altri paesi. Quando si guardano indietro e vedono l’Italia con gli occhi freschi di chi ha conosciuto dei sistemi diversi e più efficienti sono presi da rabbia e sconforto. Nel caso, non isolato, di un gruppo di giovani fisici che ha ottenuto una posizione permanente in Francia, c’è stato anche uno sforzo propositivo molto interessante: hanno scritto una lettera all’allora Ministro Mussi dal titolo “Alcune considerazioni sul sistema di reclutamento dei ricercatori italiani”. Anche se di qualche anno fa, ve ne consiglio la lettura.
Tra gli altri punti che toccano, mettono l’accento su un fatto fondamentale: il sistema così com’è non è sostenibile ed è destinato alla scomparsa. Negli ultimi anni c’è stata una veloce accelerazione verso il baratro. Solo una presa di coscienza, non unicamente da parte del mondo accademico, che ci ha sicuramente messo del suo nella destrutturazione del sistema che ci ritroviamo adesso, ma della società più in generale, sul ruolo della ricerca e dell’università nella vita economica e civile del paese potrà forse dare una spinta ad invertire una rotta che ora pare irreversibile.
Non è sorprendente che i cervelli vadano e non tornino. Ed ecco a mio parere l'ultimo esempio.
RispondiEliminaLa recente mozione della conferenza dei rettori, CRUI, chiede 2000 passaggi da RU ad associato (con abilitazione) e passaggi su semplice richiesta a professore aggregato (senza abilitazione nazionale!).
Se verrà approvata (come pare), questa mossa darà il contentino ai ricercatori cercando di far partire il prossimo anno accademico. Il futuro poi è un'altra storia.
Infatti, a farne le spese è il reclutamento di giovani, che ancor di più se ne dovranno andare.
Sarebbe interessante sentire la reazione dei ricercatori (e.g. 29aprile) su questi punti, visto che non erano esattamente tra le loro richieste.
PS: Ovviamente oltre ai giovani, a farne le spese saranno tutti i precari (migliaia!) che non avranno più punto di accesso. E la ricerca nell'università soffrirà anche di questo.