"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




venerdì 23 luglio 2010

Chi ricerca non trova (di Alessandro Ferretti)


Recensione su l'Indice


Negli ultimi due anni, i pesanti tagli alle risorse e l’acuto bisogno di buone riforme dell’università italiana hanno dato vita a importanti movimenti di protesta, da quello dell’“Onda” contro la legge 133/08 a quello attuale contro il disegno di legge 1905 “Gelmini”. Al contempo, è fiorita una quantità di saggi sui problemi universitari e sulle possibili soluzioni. Gran parte di questa produzione letteraria appartiene al genere dei libri a tesi. Pur essendo a volte opposti nelle finalità, questi saggi sono accomunati dall’impostazione ideologica: i problemi dell’università sono drammatici, ma le loro cause sono semplici ed evidenti; le soluzioni, radicali e dolorose, sono a portata di mano: basta avere un po’ di coraggio! L’autore presenta dati e testimonianze che supportano la correttezza della sua idea e inquadra il caso in un frame semplice e preciso, dal quale consegue necessariamente l’individuazione del colpevole (il baronato, i governi, l’indole degli italiani…) e l’altrettanto fatidica ipersoluzione à la Watzlawick. Al termine della lettura si ha la confortante sensazione di avere compreso la questione, e ci si chiede cosa si aspetti a varare l’immediata e salvifica riforma. L’università truccata di Roberto Perotti ne è un esempio, ma non è il solo.

Se però il lettore incuriosito incappa in un secondo libro del genere, magari di segno opposto, cadrà nella più profonda confusione. Tutto appare rovesciato. I professori che magari prima erano baroni onnipotenti sono ora vittime dell’incompetenza di legislatori e governanti, e anche qui una gran messe di dati statistici supporterà infallibilmente questa visione.
Si ottiene lo stesso effetto di straniamento di quando si assiste alle arringhe finali di accusa e difesa in un processo: due modi completamente differenti di rappresentare la stessa situazione, che lasciano il lettore sconcertato e diffidente.

Fortunatamente, però, ci sono anche studi condotti seguendo un metodo più proficuo: ad esempio, I ricercatori non crescono sugli alberi di Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi (pp. XV-113, € 12, Laterza, Roma-Bari 2010). È un’esposizione sintetica di meriti e debolezze della variegata ricerca italiana, scritta da due ricercatori che si avvalgono di una conoscenza approfondita delle università italiane ed estere. Il fatto che praticamente tutto il finanziamento statale agli atenei venga speso per gli stipendi testimonia il ruolo chiave del personale universitario. È quindi a partire da uno studio della sua attuale composizione che i nodi sono delineati e inquadrati nel contesto: l’invecchiamento del corpo docenti-ricercatori e l’erraticità e arbitrarietà dei concorsi. Il più grave problema strutturale è l’accumulo di decine di migliaia di precari: tipicamente svolgono le stesse mansioni del personale strutturato e sono indispensabili ad assicurare la sopravvivenza del sistema, ma permangono in uno stato di intollerabile incertezza che oltretutto li priva della necessaria indipendenza scientifica. Dal momento che non basta avere i ricercatori o i professori migliori se poi non sono in condizione di fare ricerca, viene anche evidenziata l’insufficienza e l’incertezza dei finanziamenti, aggravata dalla sostanziale assenza di valutazione. A proposito di quest’ultima, la centralità dell’elemento umano è ribadita dal capitolo dedicato ai tanto decantati indicatori bibliografici (impact factors e simili), di cui sono evidenziate le potenzialità e i (molti) limiti.

L’onnipresente retorica del merito, del dirigismo e di un idealizzato “sistema americano” che punta alla “creazione dell’eccellenza” viene confrontata con la realtà dei fatti. Emblematico sotto questo aspetto il caso dell’Istituto italiano di tecnologia, caratterizzato da una struttura verticistica e da cospicue risorse, ma incapace di garantire risultati all’altezza. Ne
segue che un sistema complesso e diversificato come quello della ricerca universitaria non può essere migliorato a costo zero, con formule magiche o tantomeno facendo tabula rasa dell’esistente, ma introducendo pragmaticamente aggiustamenti e regole certe, incentivando coloro che già si dedicano con impegno e passione alla ricerca.

Alla luce di queste conclusioni, i rimedi prospettati dal disegno di legge 1905 appaiono dei palliativi, quando non autenticamente catastrofici. Basti citare l’aggiunta di un’ulteriore figura a tempo determinato in sostituzione degli attuali ricercatori strutturati, che estende il precariato fino ai quarant’anni di età: condanna alla fuga all’estero le prossime generazioni di giovani ricercatori e mette su un binario morto 27.000 ricercatori strutturati. Con una sola norma si assesta un colpo mortale al presente e al futuro dell’università, senza che la società italiana ne tragga il benché minimo vantaggio. Dal confronto tra la seria ed esaustiva analisi degli autori e le ricette presentate da maggioranza e opposizione, quasi sempre senza alcun serio confronto con chi nell’università lavora e studia, nasce un serio dilemma: i nostri decisori e gli intellettuali che li supportano sono superficiali e ignari delle conseguenze delle loro politiche universitarie, o sono consciamente animati da una volontà di smantellamento del sistema pubblico di alta formazione e ricerca?

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