"I ricercatori non crescono sugli alberi" è il titolo del libro scritto a quattro mani da Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi sulla ricerca e l'università in Italia. E' stato pubblicato da Laterza a gennaio 2010. A cosa serve la ricerca, perché finanziarla, cosa fanno i ricercatori, che relazione c'è tra ricerca ed insegnamento, come riformare il sistema della ricerca e dell'università, a quali modelli ispirarsi. Due cervelli non in fuga denunciano la drammatica situazione italiana e cosa fare per uscire dalle secche della crisi. Perché su una cosa non c'è dubbio: se ben gestito, il finanziamento alla ricerca non è un costo ma l'investimento più lungimirante che si possa fare per il futuro del paese e delle nuove generazioni.




domenica 28 marzo 2010

Che fare dei ricercatori universitari?


Negli ultimi mesi leggiamo sempre più spesso sui giornali del malessere e delle proteste dei ricercatori universitari data l'imminente approvazione del DDL Gelmini. Ricercatori di vari atenei hanno minacciato di bloccare la didattica se il decreto passerà così com'è. Come abbiamo scritto in passato il DDL Gelmini (così come a suo tempo la legge Moratti, promulgata ma mai entrata in vigore) elimina la figura del ricercatore a tempo indeterminato, sostituendola con una falsa tenure-track. Si tratta di normali contratti a tempo determinato, seguiti da una eventuale assunzione come professori associati, nel caso in cui si ottenesse l'idoneità nazionale e vi siano le risorse per farlo. Rimane comunque il problema degli attuali ricercatori universitari: con la messa in esaurimento del ruolo e l'istituzione di nuove regole per l'accesso alla fascia degli associati, pensate per le cosiddette tenure-track, le prospettive di carriera diventano incerte, oltre al fatto che il ruolo del ricercatore viene ulteriormente marginalizzato con l'esclusione dagli organi accademici. Che si sarebbe creato un problema era evidente già dalla legge Moratti, ma non è ancora chiaro quale sarà la soluzione. Questo tipo di problemi sono ricorrenti nella storia legilativa dell'università italiana e tipicamente si risolvono solo quando la situazione è insostenibile con una ope-legis emergenziale.

Come finirà ora non è chiaro, visto che il vero asse portante della nuova riforma è il taglio delle risorse e la distruzione del sistema attuale e quindi soldi per ope-legis non ce ne sono. Partendo da questa constatazione, Marco Merafina del CNRU (Comitato Nazionale Ricercatori Universitari) ha proposto di fare accedere al ruolo di associato tutti iricercatori che abbiano svolto sei anni di didattica e superino i "requisiti minimi scientifici già definiti dal CUN e diversificati per area scientifica". In cambio però si rinuncia alla progressione economica degli associati, così che il provvedimento sarebbe a costo zero e quindi appetibile per il governo. In realtà tutti sanno che una volta diventati associati basterà appellarsi ad un giudice per ottenere parità di trattamento economico, La proposta è stata sottoposta al vaglio dei ricercatori universitari, con un sondaggio cui hanno risposto in 5000 (il 20% dei ricercatori). Di questi l'80% si è detto a favore della proposta. Il merito della proposta è stato quello di sollevare il problema di cosa fare degli attuali ricercatori. Il problema è che la soluzione prospettata da Merafina è facilmente criticabile, visto che i criteri minimi scientifici del CUN sono veramente minimi (per la fisica una pubblicazione all'anno in media sugli ultimi sette anni), e quindi per la promozione conterebbe soprattutto la didattica. Migliore è la proposta portata avanti da alcuni ricercatori dell'università di Siena e sottoscritta da più di seicento ricercatori. Qui si propone di bandire nei prossimi cinque anni i concorsi nazionali per l'idoneità da associato, previsti dal DDL Gelmini , ma di riservarli ai ricercatori. Si chiede inoltre che l'idoneità in questo caso coincida con la promozione senza bisogno di concorsi locali aggiuntivi. Anche la CRUI, che in passato aveva visto favorevolmente la riforma, si è accorta del problema e in una recente mozione chiede che anche gli attuali ricercatori possano accedere alle procedure di promozione previste per i tenure-track (sarebbe d'altronde assurdo vietare ai ricercatori di diventare associati). La CRUI chiede inoltre 2000 posti l'anno nei prossimi due anni.

La soluzione a tutti questi problemi sarebbe stata invece molto semplice: mantenere la figura del ricercatore e rendere invece più seria e rigorosa la conferma in ruolo dopo i primi tre anni. Questa sarebbe stata una vera tenure-track che non avrebbe creato problemi di sorta. Ma questo difficilmente avverrà. Bisognerà quindi risolvere il problema dei ricercatori e senza risorse aggiuntive non sarà facile. Ci sarebbe bisogno di una pianificazione a lungo termine degli ingressi, separando le promozioni dalle nuove assunzioni.



11 commenti:

  1. A mio modesto avviso il problema della ricerca (di conseguenza dei ricercatori) in Italia è dovuta solo ed esclusivamente all'assenza dell'oggetto della ricerca.
    Mi spiego: se un paese non produce le armi, la ricerca non esiste. Nessun stato sborsa soldini per fare una ricerca nel campo civile (perche non rende!). Invece le ricerche militri sono senpre ben pagati, e poi col tempo hanno riflessi nelle applicazioni "civili".

    RispondiElimina
  2. Ridurre la ricerca applicata solo a quella militare e' riduttivo. Tra l'altro in Italia le armi si producon (vedi http://www.disarmo.org/rete/docs/2730.pdf). Mancano quasi del tutto le imprese ad alta tecnologia sia private che statali. La ricerca fondamentale dovrebbe anche essere uno stimolo per le industrie high-tech.

    RispondiElimina
  3. Cosa sono 78 000 addetti sulla popolazione 58 milioni? Cosa sono 17 miliardi dell'industria armiera? Niente.
    Siamo sempre qui. perche mancano le imprese ad alta tecnoligia? Dove si utilizza l'alta tecnologia? Per cucire vestiti d'alta moda?

    Vedo che anche Lei ha gli occhi bendati.
    Li apra.
    Le aziende statali mancano, dice lei. Allora ci risiamo - ancora nello statalismo italiano più ostruso.

    RispondiElimina
  4. "La ricerca fondamentale" - lei non sa ancora dove, in quali paesi, esiste la ricerca fondamentale? Per chi lavora?
    Glielo dico io: per l'industria militare e spaziale.
    E lasciamo perdere qualche strumento costruito dagli italiani per la NASA o ESA.

    RispondiElimina
  5. per fortuna in Italia non si producono tante armi !
    e l'ENI invece di comprare centrali elettriche dimesse nei paesi dell'EST farebbe bene ad investire in nuove tecnologie per energie alternative. Ci sono dei settori (cone la ricerca, l'energia,ecc) in cui l'intervento statale e' determinante. Come al solito non c'e' nulla da inventare basta guardare quello che succede all'estero (Stati Uniti compresi).

    RispondiElimina
  6. Come abbiamo gia' detto: accettiamo commenti generici da anonimi, ma non discussioni prolungate. Comunque pensare che la ricerca fondamentale sia solo al servizio dell'industria militare o spaziale e' davvero riduttivo.

    RispondiElimina
  7. Mentre non penso che l'importanza della ricerca militare vada sottovalutata, basta un rapido giro su wikipedia per trovare dati che fanno riflettere. La Francia, esempio preferito dei ricercatori-alberi, esporta armi cinque volte tanto.

    Comunque l'industria italiana non sembra cosi' irrilevante come mr. Anonimo ritiene - si tratta sempre della nona posizione al mondo (comparabile al settimo posto per PIL).

    Per quanto riguarda la ricerca abbiamo pero' un altro modello: il Giappone - industria militare irrilevante e ricerca di prima categoria.

    RispondiElimina
  8. Ho un grosso problema in merito alla ricerca perché probabilmente vedo la cosa da un punto di vista personale. Infatti ho una pubblicazione alle spalle. Pubblicazione che mi sembra abbastanza inutile. Insomma possibile che uno debba stare anni sui libri per concludere solo di scrivere un libro che nessuno leggerà?
    Se questa è la ricerca in italia, sinceramente la cosa mi lascia perplessa, perché ho fatto ricerca in prima persona e ho anche lavorato, se vogliamo definire in questo modo la mia "visita nel mondo del lavoro".
    Una cosa certamente l'ho imparata, e cioé che in Italia si sottovaluta tantissimo quello che la ricerca può dare al mondo del lavoro. Si pensa che essa sia uno spreco di tempo e di ricorse, finendo così per avere prodotti di mercato scadenti, ma con un ottima promozione, si intende.
    Ecco questo penso che sia un enorme spreco.
    Se trovo qualcuno che mi dia la possibilità non solo di fare ricerca, ma anche di mettere in pratica in modo produttivo le cose su cui sto ricercando (nel mio caso specifico si tratta di tecnologie web) é ovvio che lo preferisco.
    Non sono il tipo che rimane con le mani in mano su un libro pensando che la conoscenza sia la sua torre d'avorio. E credo nessun ricercatore voglia esserlo, basta accordarsi su che strumenti porre nelle mani dei ricercatori.

    RispondiElimina
  9. cara agnese,
    il lavoro di ricerca è esattamente come lo descrivi: passi anni a studiare un problema e quando pubblichi qualcosa hai la sensazione che non importi niente a nessuno. Questo non è un problema solo in Italia, è un problema globale. Sono infatti pochi quelli si studiano i lavori di altri. Ma quei pochi in genere hanno il cervello in funzione. Ti consiglio questo libro http://www.collegepublications.co.uk/other/?00009 che spiega molto anche sulla ricerca.
    cari saluti
    francesco

    RispondiElimina
  10. ma se i ricercatori, così come pure i docenti, in italia sono dei teorici puri, arretrati di almeno 10 anni sulle tecnologie del mondo reale, quale cosa utile volete che sviluppino?
    E' per questo che in Italia la ricerca si fa solo nel privato.

    RispondiElimina
  11. se la ricerca in italia fosse solo nel privato non ci sarebbe problema di cui discutere in quanto non ci sarebbe ricerca a parte qualche fluttuazione.

    RispondiElimina